Plotino, Enneade V 3 [49: Sulle ipostasi conoscitrici e su quel ch’è al di là], 10
Plotino, Enneade V 3 [49: Sulle ipostasi conoscitrici e su quel ch’è al di là], 10
Mar 28
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10. Ebbene, su questa materia bastino questi argomenti. Se dunque rimanessero solo le cose realizzate, allora non sarebbero estreme [: ultime]. Là invece son pristini i realizzanti, ondepercui son anche pristini. Deve quindi esservi assieme anche il realizzante e ambedue devono esser un singolo; se no, abbisogneranno ancora d’altro. E che dunque? Non abbisogneranno ancora di quel |5| ch’è al di là di questo [: dell’unità di primo e principio produttore]? Oppure è il nous [: l’intelletto] questo? E che dunque? [L’uno] non guarda se stesso? Beh, questi [: l’uno] non abbisogna per nulla d’uno sguardo.
Ma questo a dopo; adesso dunque riprendiamo la lezione ‒ siccome non perlustra un’occorrenza casuale [4] questa ispezione ‒; va dunque argomentato ancora che questo nous [: intelletto] abbisogna del guardare se stesso, o meglio |10| ha il guardare se stesso, per prima cosa in questo, nel fatto ch’è plurale, dopodiché anche in questo, nel fatto ch’è d’altro [: che fa riferimento a qualcosa di diverso da sé], e di necessità è esposto al guardare, ed esposto a guardare quello [: l’uno], e la sua essenza è sguardo; siccome lo sguardo dev’essere visione di qualcos’altro d’essente, non essendovi invece nulla è vano. Deve allora essere più d’un singolo, al fine d’essere sguardo, e |15| lo sguardo deve ripetere corrispondentemente l’esistenza guardata e il sostrato guardato da esso dev’essere pluralità nel tutto. Siccome il totalmente singolo [: uno] non ha alcunché nei confronti di cui poter attivare la sua energia, tutt’altro: essendo rimasto solo ed ermo [5], ristarà; siccome in quanto s’attua l’energia v’è sempre altro e poi ancora altro; se invece non si presentasse sempre altro e poi ancora altro, che cosa potrà anche realizzare? O dove avverrà di procedere? |20| Perciò quel che mette in atto una funzione deve o metterla in atto per altro od essere esso stesso qualcosa di plurale, se si proporrà di metterla in atto in se stesso. Se invece non progredirà verso qualche altro oggetto, ristarà; allorché dunque la stasi sarà totale, non penserà. Il pensante allora deve, allorché pensi, essere in due [: una dualità], e o l’uno o l’altro son esterni o ambedue son nello stesso identico esistente, e eternamente [: sempre] nell’alterità |25| e nell’identità è di necessità la noesi [: il pensiero]; e i propriamente noumeni [: pensati] in relazione al nous [: all’intelletto] sono sia identici sia altri [: diversi].
E a sua volta ciascuno dei noumeni [: pensati] conferisce questa identità e quest’alterità; oppure che penserà ciò che non ha altro e poi ancora altro? E difatti se ciascun [pensato] è logos [: ragione], è più enti. Comprende |30| mentalmente allora se stesso per questo essere occhio variopinto o interessarsi a colori variopinti. Se difatti si buttasse su un singolo e individuo, non collegherebbe razionalmente; che cosa difatti potrebbe avere da evocare per quanto riguarda esso, o che cosa comprendere in merito a quest’oggetto?
E difatti se il totalmente individuo dovesse evocare qualcosa in merito a se stesso, dovrebbe privilegiare ciò che non è; cosicché anche in questo modo sarebbe più, al fine di |35| essere singolo. Dopodiché, se giudichi: «Sono questo», se verbalizzerà il «questo» come qualcosa d’altro [: di diverso] da se stesso, errerà; se invece lo considererà accidente avventizio per sé, verbalizzerà più concetti o verbalizzerà questo: «sono sono» e «io io».
Che dunque, se vi saranno due sole rimanenze e legherà giudicando: «Io e questo»? Beh, necessariamente vi sono già più enti; e difatti [esisterebbero] come altri [: diversi] e giacché altri [: diversi], e vi sarebbero già il numero |40| e una pluralità d’altre [determinazioni].
Il pensante allora deve assumere sempre altro e ancora altro e il noumeno [: pensato], ch’è compreso dal pensiero, dev’essere variopinto; o non vi sarà noesi [: intellezione] di esso, bensì rimarrà configurato sol un tocco e occorrente come un adattamento per contatto inverbalizzabile e impensabile, precedente il pensiero giacché il nous [: l’intelletto] non s’è ancora generato e il toccante si configura come non pensante. Neanche il pensante stesso dunque deve |45| rimanere semplice, e ancor meglio in quanto pensi se stesso; siccome esso stesso duplicherà se stesso, anche se dia come oggetto d’intellezione il silenzio.
Dunque [l’uno] non abbisognerà come di riempire se stesso di più pratiche; siccome che cosa anche apprenderà mentalmente pensando? Difatti prima che il nous [: l’intelletto] pensi sussiste come è per se stesso. E difatti dal canto suo anche la conoscenza è una qualche brama e |50| scoperta di colui che ha come cercato. Allora il totalmente differente rimane se stesso in relazione a sé e non ricerca nulla per quanto riguarda sé; ciò che invece svolge se stesso non può che essere più esistenze.
Note
[4] Platone, Repubblica, I, 352 d 5-6.
[5] Platone, Filebo, 63 b 7-8.
La traduzione dal greco è condotta sul testo dell’editio minor Henry-Schwyzer:
Plotini Opera, ediderunt P. Henry et H.-R. Schwyzer, 3 voll., Clarendon Press, Oxford 1964-82.
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