Plotino, Enneade III 7 (45: Su eternità e tempo), 9
Plotino, Enneade III 7 (45: Su eternità e tempo), 9
Mag 15
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9. Va dunque ispezionato come sia numero del movimento o misura ‒ meglio questo termine, giacché il movimento è continuo. Per prima cosa quindi va similmente verbalizzata la questione dell’”ogni”, come anche per l’oggetto “estensione del movimento”, se si argomenta ch’è misura d’ogni movimento. [5] Come, infatti, si potrebbe misurare quello disordinato ed irregolare? Quale numero o quale misura ci sarebbero? O a che cosa sarebbe conforme la misura? Se, dunque, colla stessa misura si misurano entrambe le specie di movimenti ed in generale ogni movimento (veloce, lento), il numero e la misura saranno tali, quale sarebbe il dieci se misurasse sia cavalli sia buoi, o se la stessa misura [10] fosse misura sia di liquidi sia di solidi. Se dunque si dice che è una cotale misura, si dice di quali cose il tempo è misura, cioè di movimenti, non si dice ancora, tuttavia, ciò che è in se stesso. Se dunque, come cogliendo il dieci, è necessario pensare il numero senza cavalli ed è necessario che la misura abbia una qualche natura di misura anche se non misura, così deve averla anche [15] il tempo, essendo misura: se il tempo di per se stesso è tal quale un numero, in che cosa, allora, differirebbe da questo numero, concretamente il dieci, o da qualunque altro di monadico? Se dunque è misura continua, sarà misura che è di una qualche quantità, come della magnitudine d’un cubito. Sarà allora magnitudine, come una linea che procede [20] chiaramente con il movimento. D’altronde questa, procedendo, come misurerà quello con cui procede? Perché, ecco, uno qualunque dei due è meglio che misuri l’altro? È sia meglio sia più affidabile porla (1) non in ogni movimento, ma in quello con cui procede. Questo dunque deve essere continuo, oppure la linea che procede con esso si tratterrà. D’altronde non si deve assumere il misurante dall’esterno né separatamente, [25] ma insieme al movimento misurato. E che sarà il misurante? Mentre il misurato sarà il movimento, il misurante sarà una magnitudine. E quale di essi sarà il tempo, il movimento misurato o la magnitudine misurante? O, infatti, il tempo sarà il movimento misurato dalla magnitudine, [30] o la magnitudine misurante o quello che usa la magnitudine, come s’usa il cubito per il misurare quanto è il movimento. Ma in tutte queste occorrenze, come abbiam detto, è più affidabile ipotizzare il movimento regolare: senza regolarità, infatti, e, ancor più, senza l’unicità del movimento dell’intero (2) diviene più aporetico confezionare l’argomento [35] che è una qualche misura. Se dunque il tempo è movimento misurato, e misurato dalla quantità, come il movimento, se deve esser misurato, non deve esser misurato da se stesso, ma da altro, così di necessità ‒ perché il movimento avrà una misura altra da sé e per questo abbiam abbisognato [40] della misura continua per la misurazione di esso ‒ allo stesso modo anche la magnitudine stessa abbisogna d’una misura, affinché il movimento sia misurato contando sul fatto che la grandezza conformemente a cui è misurato viene altrettanto misurata nella sua quantità. Ebbene, il tempo sarà il numero della magnitudine avanzante insieme al movimento, non già la magnitudine [45] procedente col movimento. Questo, dunque, che cosa potrebbe mai essere se non un numero monadico? È necessariamente aporetico il modo in cui misurerà. Ed anche se qualcuno scoprirà come, non scoprirà il tempo misurante, ma un tempo di questo tot; questo, dunque, non è identico al tempo. Altro, infatti, è dire il tempo, altro un tempo d’un tot: prima, infatti, di [50] enunciare il tot si deve enunciare che cosa mai sia quello che è d’un tot. Ma il tempo sarebbe il numero misurante il movimento dall’esterno del movimento, come il dieci è colto in riferimento ai cavalli ma non con i cavalli. Ebbene, non è detto che cosa sia questo numero, che è ciò che è prima del misurare, come per esempio il [55] dieci. Forse è questo: quello che, scorrendo col movimento, lo misura conformemente al prima e poi. D’altronde questo, che misura conformemente al prima e poi, non è chiaro di che qualità sia. D’altronde, misurando conformemente al prima e poi, misurerà conformemente al tempo sia grazie a un punto sia grazie a qualunque altro mezzo. Quindi [60] questo tempo, il quale misura il movimento col prima e poi, avrà relazione e sarà in contatto col tempo al fine di misurare. O, infatti, si assumono prima e poi nel senso spaziale, come il principio dello stadio, o è necessario assumerli nel senso temporale. In generale, ecco, circa il prima e poi, il prima è il tempo [65] che cessa all’adesso, mentre il poi è quello che principia dall’adesso. Allora il tempo è altro dal numero misurante conformemente al prima e poi non solo qualsivoglia movimento, ma anche quello regolare. Inoltre perché, generandosi in aggiunta un numero, inteso sia come il misurato sia come il [70] misurante ‒ lo stesso, infatti, può essere sia misurante sia misurato ‒ quindi perché, generandosi un numero, il tempo sarà, mentre, essendovi movimento ed il prima ed il poi che sussistono totalmente per esso, non vi sarà tempo? Sarebbe come se, per esempio, qualcuno argomentasse che la magnitudine non è grande quanto è, se [75] qualcuno non capisse quanto grande essa sia. Dunque, se il tempo è ed è concepito come infinito, come potrebbe esservi numero per esso? A meno che qualcuno, presala, misuri una qualche parte di esso, nella quale viene ad essere prima di essere misurato. Perché, dunque, non vi sarà prima che vi sia l’anima misurante? A meno che qualcuno non argomenti che la sua genesi [80] nasce dall’anima (3). Ecco che non è in alcun modo necessario per il misurare: sussiste infatti come la quantità che è anche se qualcuno non lo misura. Qualcuno, dunque, potrebbe argomentare che l’anima sia quel che usa la magnitudine per misurare; questo, tuttavia, in che relazione sarebbe col concetto di tempo?
Note
(1) Porre la misura.
(2) Intero: universo.
(3) L’anima (psukhḗ) è la terza ipostasi, procedente dal nous, che a sua volta procede dall’Uno.
La traduzione dal greco si basa sull’editio minor Henry-Schwyzer: Plotini Opera, ediderunt P. Henry et H.-R. Schwyzer, 3 voll., Oxford 1064-82 (1964, pp. 337-361).
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