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Plotino, Enneade I 4 [46: Sulla felicità], 3

Plotino, Enneade I 4 [46: Sulla felicità], 3

Mar 15

 

 

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3. Noi, dunque, diciamo dal principio che cosa mai assumiamo sia la felicità. Ponendo, dunque, la felicità nella vita, se considerassimo il vivere in modo univoco, allora concederemmo che tutti i viventi son capaci di felicità, dunque che vivono bene |5| in atto quelli nei quali si presenta quell’unico ed identico qualcosa di cui per natura tutti i viventi sono ricettivi, e, orbene, non concederemmo che questo sia possibile a quello razionale senza concederlo eziandio a quello irrazionale: la vita, infatti, sarebbe la componente comune, che dovrebbe essere in grado d’essere ricettiva dello stesso stato relativo all’essere felici, se per davvero la felicità sussiste in una qualche vita. Perciò, |10| credo, coloro [gli stoici] che argomentano che la felicità si genera nella vita razionale, non ponendola nella vita in complesso, han ignorato che neppure ipotizzano che la felicità sia vita. Sarebbero, ordunque, necessitati ad argomentare che la facoltà razionale, sulla quale la felicità si costituisce, è una qualità. Ma la vita razionale è, per essi, sostrato: |15| su questo, infatti, come sulla salvaguardia dell’intero, la felicità si costituisce, cosicché si costituisce su un’altra specie di vita ‒ ne parlo, ordunque, non come d’una distinzione logica [11], bensì così come noi professiamo che una cosa è priore ed un’altra posteriore. Giacché la vita si dice in più sensi, e la differenza s’ha conformemente al primo grado, al secondo e |20| così via, e il vivere si dice equivocamente ‒ altro il senso in cui si dice della pianta, altro quello in cui si dice dell’irrazionale [del vivente irrazionale] (degl’irrazionali aventi differenza di chiarezza ed oscurità) ‒, è luminoso che il vivere bene è analogo. E se uno è immagine d’un altro, è luminoso anche che il viver bene dell’uno è, a sua volta, immagine del viver bene dell’altro. Se dunque il vivere bene appartiene all’ente che sostiene alla grande il vivere ‒ ossia |25| ciò il cui vivere non manca di nulla ‒, allora solo a colui che vive alla grande apparterrà la felicità; a costui, infatti, apparterrebbe anche l’optimum, se per davvero negl’essenti l’optimum è quel che ontologicamente è nella vita, ovvero la vita perfetta: in questo modo, infatti, il bene non sussisterebbe avventiziamente, né questo sostrato altro generato altrove |30| lo abiliterà ad essere nel bene. Che cosa, infatti, si potrebbe aggiungere alla vita perfetta al fine di farla essere ottima? Se dunque qualcuno dirà «la natura del bene» [12], argomenterà proprio il nostro ragionamento, sebbene cerchiamo non la causa, bensì il bene immanente.

Che, ordunque, la vita perfetta e verace ed ontologicamente reale sia in quella natura intellettuale, |35| e che le altre siano imperfette e visioni illusorie di vita e non perfettamente né puramente vita e non vite meglio del contrario, ebbene, è stato più volte verbalizzato; anche adesso, dunque, sia argomentato concisamente che, sintantoché tutti i viventi sono esito d’un unico principio, senza d’altronde vivere in modo eguale a quest’oggettività, è necessario che il principio sia la prima vita e |40| la più perfetta.

 

Note

[11] Cfr. Aristotele, Categorie, 13, 14 b 33.

[12] Cfr. Platone, Filebo, 60 b 10.

 
La traduzione dal greco è condotta sul testo dell’editio minor Henry-Schwyzer:
Plotini Opera, ediderunt P. Henry et H.-R. Schwyzer, 3 voll., Clarendon Press, Oxford 1964-82.

 
Brano seguente: Plotino, Enneade I 4 [46: Sulla felicità], 4

 

 


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