Platone, Parmenide (4)
Platone, Parmenide (4)
Mag 01Brano precedente: Platone, Parmenide (3)
«A meno che, Parmenide», disse Socrate, «ciascuna di queste idee non sia pensiero e per lei non sia appropriato generarsi in nessun altro luogo se non nelle anime: così, infatti, ciascuna sarebbe sì una e non patirebbe più ciò che or ora era argomentato».
«E quindi?», disse. «Ciascuno dei pensieri è uno, ma è pensiero di nulla?»
«Ma impossibile!», rispose.
«Invece è pensiero di qualcosa?»
«Sì».
[132c] «Di qualcosa di essente o di non essente?»
«Di essente».
«Non è di qualcosa di unitario, che quel pensiero pensa presente su tutti e che è una qualche idea unica?»
«Sì».
«Allora non sarà un’idea quel che si pensa sia uno, essendo sempre lo stesso su tutti?»
«Di necessità, pare anche».
«Che ne dici dunque?», disse Parmenide. «Per la necessità per la quale affermi che gli altri enti partecipano delle idee, non ti sembra che o ciascuno sia costituito di pensieri e tutti pensino o, pur essendo pensieri, siano inintelligibili?»
«Ma neppure questo», dichiarò, «ha senso; invece, Parmenide, [132d] a me pare proprio sia meglio così: mentre queste idee come modelli stanno nella natura, gli altri le raffigurano e ne sono somiglianze, e la partecipazione stessa degli altri alle idee non si genera come qualcosa d’altro rispetto alla raffigurazione di esse».
«Se quindi qualcosa», disse, «raffigura l’idea, è possibile che quell’idea non sia simile alla figura, in quanto le rassomiglia? O c’è qualche meccanismo per cui il simile non è simile al simile?»
«Non c’è».
«Dunque non c’è forse la massima necessità che il simile al simile partecipi di un’unica [132e] identica idea?»
«C’è la necessità».
«Dunque, ciò partecipando del quale i simili sono simili non sarà forse quell’idea in sé?»
«Assolutamente, eccome».
«Allora non è possibile che qualcosa sia simile all’idea né che l’idea sia simile ad altro; sennò, accanto all’idea comparirà sempre un’altra idea [133a] e, qualora anche quella fosse simile a qualcosa, un’altra ancora e non ci sarà mai posa al generarsi perpetuo di una nuova idea, qualora l’idea divenisse simile a quel che partecipa di essa».
«Verissimi i tuoi argomenti».
«Non è allora per somiglianza che gli altri partecipano delle idee, ma si deve cercare qualcos’altro per cui partecipano».
«Si vede».
«Stai quindi guardando», disse, «Socrate, quant’è grande l’impasse qualora le si riguardi determinate come idee essenti in sé e per sé?»
«Eccome».
«Comunque sappi bene», disse, «che, per così dire, non stai ancora concependo [133b] quanto grande sia l’impasse, se di ciascuno degli essenti farai un’unica idea determinandone sempre qualcuna».
«Dunque… come?», disse.
«Ce ne sono anche molte altre», affermò, «la massima però è questa. Se qualcuno affermasse che non si arriva neppure a conoscerle, essendo tali quali affermiamo debbano essere le idee, a colui che argomentasse questo non si avrebbe modo d’indicare che sbaglia, sempreché non capiti che l’obiettante sia esperto di molti argomenti e non sia privo di doti naturali, ma voglia seguire il dimostrante mentre tratta di moltissime cose e da premesse remote, altrimenti non [133c] sarebbe persuaso colui per il quale è necessario che esse siano inconoscibili».
«Come mai, Parmenide?», domandò Socrate.
«Perché, Socrate, credo che sia tu sia qualsiasi altro supponga ci sia una qualche essenza in sé e per sé di ciascun ente concordereste in primis che nessuna di loro è in noi».
«Come, ecco, potrebbe essere ancora in sé e per sé?», disse Socrate.
«Argomenti bene», disse. «Inoltre, tutte quante le idee, che sono ciò che esse sono in relazione le une alle altre, hanno l’essenza in relazione a sé ma non in relazione agli enti presso di noi [133d] – siano somiglianze oppure come li si voglia porre –, partecipando dei quali noi denominiamo ogni essere; dunque, questi enti presso d noi, pur essendo loro omonimi, sono anch’essi in relazione a se stessi ma non in relazione alle idee e così, quanto alle denominazioni, sono loro proprie e non di quelle».
«Come lo argomenti?», domandò Socrate.
«È come», dichiarò Parmenide, «se qualcuno di noi fosse padrone o schiavo di qualcun altro: lo schiavo è schiavo non del padrone in sé (ciò che è ontologicamente padrone), [133e] né il padrone è padrone dello schiavo in sé (ciò che è ontologicamente schiavo), ma, essendo uomo, è padrone o schiavo, in entrambi questi casi, di un uomo; invece la padronanza in sé è ciò che è quale padronanza della schiavitù in sé ed allo stesso modo la schiavitù in sé è schiavitù della padronanza in sé, ma gli enti in noi non hanno potere in relazione a loro né quelle l’han in relazione a noi, ma, come argomento, quelle sono di se stesse ed in relazione a sé e [134a] gli enti presso di noi, allo stesso modo, sono in relazione a sé. O non hai in mente ciò che argomento?»
«Assolutamente sì», affermò Socrate, «l’ho in mente».