Platone, Lettera VII 344c-345c
Platone, Lettera VII 344c-345c
Giu 11
Brano precedente: Platone, Lettera VII 343e-344c
Perciò dunque ogni uomo serio deve studiarsi assai di non scrivere intorno alle cose che sono serie, non sia mai che le abbassi al livello dell’invidia ed all’impasse insite negli uomini [spoudaios tōn ontōn spoudaiōn peri pollou dei mē grapsas pote en anthrōpois eis phthonon kai aporian katabalei]. In una parola, dunque, da questo si deve riconoscere [ek toutōn dei gignōskein] che, allorquando si vedano opere scritte da qualcuno, o nella classe delle leggi d’un legislatore oppure in qualche altra classe [eite en nomois nomothetou eite en allois tisin hatt’ oun], queste non erano per lui le cose più serie, se egli è serio [spoudaiotata, eiper estin autos spoudaios]; giacciono invece nella parte più bella di lui [keitai de pou en khōra(i) tē(i) kallistē(i) tōn toutou]; se invece [344d] mette per iscritto quelle che son state realmente studiate seriamente da lui, «effettivamente or dunque, toh,» non dèi bensì mortali «gl’han fatto perdere il senno» [ontōs autō(i) taut’ espoudasmena en grammasin etethē, «ex ara dē toi epeita,», theoi men ou, brotoi de «phrenas ōlesan autoi»].
Dunque, colui che ha seguito questo racconto [muthō(i)] e questa digressione ben vedrà che, se Dionisio ha scritto qualcosa intorno ai principi sommi e primi della natura o lo ha fatto qualcuno di minore o maggiore, nessuna delle cose che, avendole ascoltate ed imparate, abbia scritto era sana, conformemente al mio argomento [eu eisetai, eit’ oun Dionusios egrapsen ti tōn peri phuseōs akrōn kai prōtōn eite tis elattōn eite meizōn, hōs ouden akēkoōs oude memathēkōs ēn hugies hōn egrapsen kata ton emon logon]: sennò, ecco, le avrebbe venerate similmente a me [homoiōs gar an auta esebeto emoi], e non avrebbe osato esporle alla disarmonia ed all’impreparazione [an auta etolmēsen eis anarmostian kai aprepeian ekballein]. Ecco, non le ha scritte come sussidi mnemonici [hupomnēmatōn kharin] – ecco, nessun [344e] timore che le si dimentichi, una volta che sian percepite nell’anima [ouden gar deinon mē tis auta epilathētai, ean hapax tē(i) psukhē(i) perilabē(i)]: ecco, si trovano nello spazio più breve di tutti [pantōn gar en brakhutatois keitai] –, però, se sì, lo ha fatto per ambizione turpe, sia confezionandole come sue, sia affettando d’esser partecipe d’un’educazione, della quale non era degno, amando quella gloria che [345a] è generata dal parteciparvi [philotimias de aiskhras, eiper, heneka, eith’ōs hautou tithemenos eith’ōs paideias dē metokhos ōn, hēs ouk axios ēn agapōn doxan tēn tēs metokhēs genomenēs]. Ebbene [men oun], se per quell’unica conversazione [ek tēs mias sunousias] a Dionisio è avvenuto questo, allora sia pure, tuttavia come sia avvenuto «lo veda Giove» [ittō Zeus], dice il Tebano: io esposi, ecco, [diexelthon men gar] come ho già detto, una sola volta, e posteriormente mai più [hapax monon, husteron de ou pōpote eti].
Dopo questo, colui cui importasse trovare in qual maniera siano mai avvenuti questi fatti [hotō(i) melei to peri auta gegonos heurein hopē(i) pote gegonen] deve dunque intendere [ennoien] per quale ragione [tini pot’ aitia(i)] non abbiam discusso [diexē(i)men] una seconda volta [to deuteron], una terza ed ancora più volte [pleonakis]: forse [poteron] Dionisio, avendo ascoltato solo [345b] una volta, credeva così di saperne oppure ne sapeva a sufficienza, o avendo trovato egli stesso oppure avendo imparato in precedenza da altri [houtōs eidenai te oietai kai hikanōs oiden, eite autos heurōn ē kai mathōn emprosthen par’ heterōn]? o che gli argomenti fossero fole [phaula einai ta lekhthenta]? o, terzo, li credeva non conformi a lui bensì maggiori [ou kath’auton, meizona de] e credeva realmente di non essere capace di ottemperare ad una vita di saggezza e di virtù [ontōs ouk an dunatos einai phronēseōs te kai aretēs zēn epimeloumenos]? Se, ecco, li credeva fole, confliggerebbe [makheitai] con molti testimoni [martusi] che argomentano il contrario [ta enantia legousin], i quali per gli argomenti di tal sorta [peri tōn toioutōn] sarebbero critici [an eien kritai] di gran lunga [pampolu] più autorevoli [kuriōteroi] di Dionisio; se invece credeva di averli trovati [hēurēkenai] od imparati [memathēkenai], e dunque che fossero degni [axia] per l’educazione d’un’anima [345c] libera, allora come mai, pur non essendo un uomo bizzarro, ha potuto disprezzare così alla leggera la guida ed il maestro di questi argomenti [pros paideian psukhēs eleutheran, pōs an, mē thaumastos ōn anthrōpos, ton hēgemona toutōn kurion houtōs eukherōs ētimasen pot’ an]?