Platone, Lettera VII 343a-343e
Platone, Lettera VII 343a-343e
Giu 04
Brano precedente: Platone, Lettera VII 342a-342e
Oltre a questo, ecco, questi tentano di mostrare la qualità per ciascuna cosa non meno [343a] che l’essenza [oukh hētton epikheirei to poion ti peri hekaston dēloun ē to on] di ciascuna per la debolezza della discorsività [dia to tōn logōn asthenes]; a motivo di ciò [hōn heneka] nessuno che abbia senno [noun] oserà mai porre in essa i propri pensieri [tolmēsei pote eis auto tithenai ta nenoēmena hup’ autou] e porli nell’immobilità che patiscono appunto le parole scritte in segni [tauta eis ametakinēton, ho dē paskhei ta gegrammena tupois]. Dunque, si deve ancora tener in mente quel che adesso è argomentato.
Ciascun cerchio di quelli in effetti tracciati [tōn en tais praxesi graphomenōn] oppure disegnati al compasso è colmo del contrario [mestos tou enantiou] al quinto elemento [tō(i) pemptō(i)]: ecco, è tangente dappertutto [ephaptetai pantē(i)] alla retta [eutheos]; il cerchio in sé invece – professiamo – [autos de phamen] non ha in sé stesso alcunché (né di minore né di maggiore) della natura contraria [oute ti smikroteron oute meizon tēs enantias ekhei en hautō(i) phuseōs]. E, quanto al nome, professiamo che nessuno di essi [343b] è saldo [bebaion] in nulla [oudeni], e che dunque nulla vieta [kōluein] che le cose adesso chiamate rotonde sian chiamate rette [ta nun strongula kaloumena euthea keklēsthai] e le rette, dunque, rotonde, e che nondimeno le cose avrebbero saldezza per coloro che li han rifatti [ouden hētton bebaiōs hexein tois metathemenois] e le chiamano in modo contrario [enantiōs kalousin]. Ebbene, c’è lo stesso argomento, ecco, per la definizione, perché [peri logou ge ho autos logos, eiper] è composta [sunkeitai] di nomi e verbi: non è salda, in modo sufficientemente saldo, per niente [mēden hikanōs bebaiōs einai bebaion].
Assai, or dunque, son gli argomenti [murios de au logos] intorno a ciascuno dei quattro, sul fatto che è oscuro [hōs asaphes], tuttavia il maggiore è quello che abbiam enunciato [megiston hoper eipomen] in precedenza, poco fa, cioè che, essendoci una dualità tra l’essenza e la qualità di qualcosa [hoti duoin ontoin, tou te ontos kai tou poiou tinos], [343c] mentre l’anima cerca di vedere non la qualità bensì il che cosa [ou to poion, to de ti, zētousēs eidenai], ciascuno dei quattro, protendendo verso l’anima, a parole e con i fatti, [proteinon tē(i) psukhē(i) logō(i) te kai kat’ erga] quel che non è cercato, sempre presentando [parekhomenon], ciascuno, quel che è argomentato [legomenon] ed indicato [deiknumenon] come facilmente confutabile dalle sensazioni [aisthēsin euelenkton], riempie [empimplēsi] d’aporia e d’oscurità [asapheias] totale [pasēs], per così dire, ogni uomo [pant’ andra].
Quindi nei casi in cui, subendo una cattiva educazione, non ci è neanche consueto cercare il vero, mentre basta quel che è propinato dai sensi [en hoisi men oun mēd’ eithismenoi to alēthes zētein esmen hupo ponēeas trophēs], non diveniamo ridicoli gl’uni per gl’altri, gl’interrogati nei confronti [343d] degl’interroganti, benché capaci [hoi erōtōmenoi hupo tōn erōtōntōn, dunamenōn de] di respingere [diarriptein] e confutare [elenkhein] quei quattro, mentre, in quei casi in cui [en hois d’ an] costringiamo [anankazōmen] a rispondere sul [apokrinasthai] ed a mostrare [dēloun] il quinto, colui che vuole, tra quelli capaci di torchiare, prevale [ho boulomenos tōn dunamenōn anatrepein kratei], e fa sì che colui che espone in discorsi [poiei ton exēgoumenon en logois] o scritti o risposte sembri ai più tra gli uditori non conoscere niente di ciò che tenta [apokrisesin tois pollois tōn akouontōn dokein mēden gignōskein hōn an epikheirē(i)] di scrivere o dire, giacché a volte ignorano che [legein, agnoountōn eniote hōs] non è confutata [elenkhetai] l’anima di colui che ha scritto o parlato [lexantos] ma la natura [phusis] d’ognuno di quei quattro, naturalmente [343e] vile [pephukoia phaulōs].
Brano seguente: Platone, Lettera VII 343a-344c