Platone, Lettera VII 341a-342a
Platone, Lettera VII 341a-342a
Mag 25
Brano precedente: Platone, Lettera VII 340b-341a
Così dunque parlai allora, con queste parole, anche a Dionisio. Comunque né io esposi [diēxelthon] né [341b] Dionisio domandava [edeito] tutte le cose [panta]: ecco, egli presumeva [prosepoieito] di saperne [eidenai] molte [polla], anche le massime [ta megista], e di averne a sufficienza [hikanōs ekhein] per [dia] i malintesi uditi [parakoas] dagli altri. Dunque odo che poi egli ha anche scritto intorno alle cose che [peri hōn] allora udì, confezionandole [sunthenta] come sua opera e non come elaborazione delle cose che aveva udito [hautou tekhnēn, ouden tōn autōn hōn akouoi]; non so [oida], tuttavia, nulla di questo, mentre so che alcuni altri han scritto intorno a queste stesse cose, tuttavia essi non sanno neanche chi sono [hoitines de, oud’ autoi hautous].
Ma ecco, questo ho da dire intorno a coloro i quali [341c] han scritto e scriveranno, che professano di saperne intorno alle cose che [phasin eidenai peri hōn] io studio * [spoudazō], o avendole udite da me o da altri o avendole trovate [eurontes] essi stessi: non è possibile [estin] a mio parere [doxan] che costoro abbian sentore alcuno della faccenda [peri tou pragmatos epaiein ouden]. Ecco, intorno ad esse non c’è un mio scritto [sungramma] né mai ci sarà [genētai]: ecco, non è in alcun modo verbalizzabile [rēton] come gli altri insegnamenti [mathēmata], ma, a partire da una lunga consuetudine con la cosa stessa [ek pollēs sunousias gignomenēs peri to pragma auto] e dalla comunanza del vivere, ex abrupto, [suzēn exaiphnēs] come [142d] luce accesa dallo scoccare di una scintilla [apo puros pēdēsantos exaphthen phōs], generandosi nell’anima si nutre ormai da sé stesso [auto heauto ēdē trephei]. Eppure, questo sì lo so: che scritte o discusse [lekhthenta] da me sarebbero discusse al meglio [beltist’ an lekhtheiē] e che se fosser scritte male me ne addolorerei non poco, assai [kakōs oukh’ hēkist’ an eme lupoi].
Se, invece, mi fosse parso che fossero scrivibili adeguatamente per il pubblico [moi ephaineto graptea th’ hikanōs pros tous pollous] e verbalizzabili [rēta], che cosa di più bello [kallion] di questo sarebbe mai praticabile da parte nostra nella vita [epeprakt’ an hēmin en tō(i) biō(i)]: scrivere qualcosa grandemente utile [mega ophelos] per gli uomini e [341e] prodigare [proagagein] a tutti in piena luce la natura [eis phōs tēn phusin]? Ma non ritengo bene [agathon] per gli uomini il mettere mano [epikheirēsis], come si dice, a queste cose [peri autōn], se non per alcuni pochi: quanti son capaci di trovare da se stessi con una piccola indicazione [dunatoi aneurein autoi dia smikras endeixeōs], mentre, tra gli altri, gl’uni si riempirebbero di disprezzo non retto [kataphrōnēseōs ouk orthēs emplēseien an], in maniera non intonata [emmelōs], gl’altri, invece, di superba [hupsēlēs] e vacua speme [khaunēs helpidos], come [342a] fossero venerandi gl’insegnamenti ch’han mandato a mente [semn’ atta memathēkotas].
Nota
* Platone non sta parlando di teorie qualsiasi, ma delle sue dottrine non scritte (agrapha dogmata), che esponevano i principi supremi di tutta la realtà.
Brano seguente: Platone, Lettera VII 342a-343e