Temi e protagonisti della filosofia

Platone, Fedone (33)

Platone, Fedone (33)

Feb 06

Brano precedente: Platone, Fedone (32)

 

[113d] Questa dunque è la natura di questi enti; quando i trapassati arrivano al luogo dove il demone accompagna ognuno, in primis sono giudicati sia coloro che hanno vissuto bene e santamente sia coloro che non l’han fatto. E quelli che si accerta abbian vissuto mediocremente, portatisi all’Acheronte e poi saliti sui veicoli che sono là per loro, su di essi arrivano alla palude e qui dimorano e, purificatisi dalle ingiustizie scontandone il fio, se ne sciolgono, se qualcuno n’ha commesse alcune, e si offrono premi delle buone opere [113e] a ognuno secondo il valore; ma coloro i quali sian riconosciuti averne d’inespiabili per la grandezza delle colpe, avendo compiuto o sacrilegi molti e grandi o molte uccisioni ingiuste e illegali o quant’altro sia di tal sorta, il meritato destino li getta dunque nel Tartaro, da dove mai più vengono fuori. Coloro invece che son riconosciuti colpevoli di colpe sì espiabili ma grandi, come chi contro il padre o la madre [114a] per collera abbia fatto qualcosa di violento eppure viva l’altra parte della vita pentendosene o coloro che sono diventati omicidi in qualche modo altrettale, costoro è dunque necessario che cadano nel Tartaro, ma poi, passatovi un anno dalla loro caduta, la marea espelle gli omicidi lungo il Cocito, i patricidi e i matricidi lungo il Piriflegetonte; quando dunque sono stati trasportati alla palude Acherusiade, quivi gridano e chiamano, gli uni coloro che ammazzarono, gli altri coloro che oltraggiarono, e, chiamatili, li supplicano [114b] e chiedono di lasciarli venir fuori dalla palude e di accoglierli e, qualora li persuadano, vengono fuori e calmano i mali, e sennò sono ritrasferiti nel Tartaro e da lì daccapo nei fiumi e non posano dal patire questo prima di esser riusciti a persuadere quelli coi quali furono ingiusti: questa infatti è la pena disposta per loro dai giudici. Coloro cui è invece riconosciuto d’essersi distinti per aver vissuto santamente, costoro sono liberati e alienati da questi luoghi terreni [114c] come da carceri e arrivano in alto alla pura dimora e dimorano sulla vera terra. Di costoro, dunque, quelli che si siano purificati a sufficienza con la filosofia vivono in tutto e per tutto senza corpo per il tempo successivo e arrivano a dimore anche più belle di queste, le quali non sono facili da descrivere né il tempo è sufficiente nel frangente presente. Comunque, per tutto ciò di cui abbiamo discorso, bisogna, Simmia, far di tutto nella vita per partecipare di virtù ed intelligenza: bello, infatti, è il premio e la speranza è grande.

[114d] Beh, esser irremovibili sul fatto che le cose stiano così come io ne ho discorso non si addice a uomo che abbia senno; nondimeno sostenere o che siano così o che siano di tal fatta quelle che riguardano le nostre anime e le loro dimore, proprio perché l’anima s’è palesata quale ente immortale, mi sembra, ecco, gli s’addica e che sia pure valido che si arrischi a credere che stanno così – sì: che bello il rischio! – e bisogna fare a se stessi incantesimi come questi, dunque per questo anch’io da un po’ mi dilungo nella favola. Ma, consapevole proprio di questo, bisogna s’ingagliardisca per la sua anima [114e] l’uomo che, nella vita, disse grazie e arrivederci agli altri piaceri di pertinenza del corpo e ai suoi ornamenti, siccome gli sono alieni e ritenendo che si adoperino più male che bene, mentre si studiò di applicarsi ai piaceri di pertinenza della mente e, avendo ornato l’anima non con un ornamento alieno ma con quello a lei proprio (con saggezza e con giustizia [115a] e con coraggio e con libertà e con verità), permane così in attesa del viaggio nell’Ade, mettendosi in viaggio allorquando il destino chiami. Quindi voi», disse, «Simmia e Cebete e gli altri, vi metterete in viaggio ciascuno a sua volta tra qualche tempo; quanto a me, invece, direbbe un eroe tragico, oramai mi chiama il destino, ed è quasi ora di andarmene spedito al bagno: ecco, mi sembra sia meglio che beva il veleno dopo essermi lavato e le donne non abbiano daffare per lavare un cadavere».

[115b] Quando egli ebbe detto queste parole, Critone disse: «E sia, Socrate; ma hai qualche incarico per costoro o per me riguardo ai figli o riguardo a qualcos’altro, meglio: noi che cosa possiamo fare per te per farti cosa gradita?»

«Ciò che dico sempre», disse, «Critone, nulla di nuovo: che prendendovi cura di voi stessi voi farete cosa gradita a me e ai miei e a voi stessi qualunque cosa facciate, anche se adesso non mi prometteste nulla; se però non vi prenderete cura di voi stessi e non vorrete vivere conformemente alle cose dette sia adesso sia nel precedente tempo come a delle orme, neanche se mi faceste molte promesse [115c] in quello presente con foga, non farete più nulla».

«Ebbene, avremo l’accortezza di fare queste cose proprio così», disse. «Ma in quale modo vuoi che ti seppelliamo?»

«Come volete», disse, «sì, sempreché mi prendiate e non vi sfugga».

Poi, con serenità ridendo e insieme guardando verso di noi, disse: «Uomini, non persuado Critone che io sono questo Socrate, questo qui che adesso sta dialogando e riordinando ciascuno degli argomenti: crede invece che io sia quello [115d] che tra poco vedrà cadavere, e domanda dunque come debba seppellirmi. Dunque ciò su cui è da un pezzo che faccio un gran argomentare, cioè che, dopo che avrò bevuto il veleno, non rimarrò più presso di voi ma me ne andrò via verso la felicità dei beati, gli sembra che io lo argomenti alla leggera, consolando con favole voi e me stesso insieme. Date garanzia quindi per me di fronte a Critone», disse, «la garanzia contraria a quella ch’egli diede di fronte ai giudici. Egli infatti garantì che sarei rimasto qui; voi invece dovete garantire che non rimarrò qui dopo che sarò morto, ma me ne andrò [115e] via, cosicché Critone sopporti facilmente e guardando il mio corpo o bruciato o sotterrato non s’affligga per me come se patissi orrori, né dica, al funerale, che espone Socrate o lo porta via o lo sotterra. Infatti vedi bene», disse poi lui, «ottimo Critone, che il parlare inopportunamente non solo è stonato di per se stesso, ma infetta anche le anime con un qualche male. Ma bisogna ingagliardirsi e dire che è il mio corpo che seppellisci, e seppelliscilo [116a] così come ti sia gradito e ritieni meglio legalmente».

Detto questo, egli stava di nuovo in piedi per andare in una stanza a lavarsi, e Critone lo seguiva mentre c’invitava a rimanere. Rimanemmo quindi a dialogare tra di noi intorno a ciò che era stato detto e a riesaminarlo e a discettare ancora su quanto grande fosse la sventura accadutaci, irrimediabilmente consapevoli che, privati come del padre, orfani avremmo trascinato la vita successiva. Dunque, dopo che [116b] si fu lavato, furono condotti da lui i bambini – infatti aveva due figli piccoli e uno di grande – e arrivarono anche le donne della sua famiglia; quando ebbe dialogato con loro davanti a Critone ed ebbe raccomandato quel che voleva, invitò le donne e i figli ad andarsene, mentre lui tornò da noi. Ed era ormai vicino il tramonto del sole: infatti si trattenne molto tempo in quella stanza. Entrato dunque dopo essersi lavato, si sedette, dopodiché non ci furono molti dialoghi. E arrivò il messo degli Undici e, stando [116c] di fronte a lui, disse: «Socrate, non ti biasimerò come biasimo gli altri che si adirano con me e mi maledicono quando annuncio loro che devono bere il veleno costretti dagli arconti. Ma io già altre volte in questo tempo ho conosciuto te che sei l’uomo più gentile e più mite e più buono di quelli che son mai arrivati qua, e dunque anche adesso vedo bene che ti adiri non con me ma con i responsabili, sì li conosci… Adesso quindi – sì, sai ciò che vengo ad annunciare – [116d] addio e prova a sopportare più serenamente che puoi questa sciagura». E subito, in lacrime, voltandosi andò via.

E Socrate, alzato lo sguardo verso di lui, disse: «Addio anche a te, noi faremo come dici». E subito disse a noi: «Che persona urbana: per tutto questo tempo è venuto a trovarmi e talvolta dialogava anche ed era uomo eccellente, e come mi compiange sinceramente adesso. Ma dunque orsù, Critone, siamogli fedeli e qualcuno porti il veleno, se è triturato, sennò lo trituri quell’uomo».

[116e] E Critone disse: «Ma, Socrate, io credo che il sole sia ancora sui monti e non sia affatto tramontato. E per giunta io so anche che altri bevono assai più tardi di quando è stato dato loro l’annuncio, dopo aver cenato e bevuto a sazietà, e alcuni dopo aver avuto casomai compagnia da coloro che desiderano. Ma allora non affrettarti: ecco, c’è ancora un lasso di tempo».

E Socrate disse: «Sì, c’è da immaginarsi, Critone, che quelli di cui tu discorri facciano così – credono infatti di guadagnarci facendo così –  e c’è da immaginarsi che io non farò così: null’altro, ecco, [117a] credo di guadagnare bevendo un po’ posticipatamente se non di rendermi ridicolo a me stesso incollandomi al vivere e risparmiandolo anche se non vi è più nulla in esso. Ma va’», disse, «fidati e non fare altrimenti».

E Critone, ascoltatolo, fece cenno al servo che gli stava accanto. E il servo, uscito e trattenutosi fuori a lungo, tornò guidando colui che, portandolo triturato in una tazza,  doveva dare il veleno. Socrate dunque, veduto quell’uomo, disse: «Bene, illustrissimo, tu che hai scienza stabile di questo, che bisogna fare?»

«Nient’altro», disse, «che, dopo bevuto, andare in giro sin quando ti s’ingeneri pesantezza [117b] nelle gambe, dopodiché sdraiarsi, e così esso farà effetto». E simultaneamente diresse la tazza verso Socrate.

Ed egli, presala molto placidamente, Echecrate, non tremando per nulla e non scomponendosi né nel colorito né in volto ma, come soleva, sogguardando taurinamente verso quell’uomo, disse: «Che dici di questa pozione relativamente all’essere o no ammissibile libarci a qualcuno?»

Disse: «Socrate, la trituriamo quantificandone la misura per quel tanto che crediamo sia da bere»

[117c] «Comprendo», disse poi lui, «ma pregare gli dei che l’avvicendamento da qui a là avvenga con successo è affatto permesso e prescritto: ciò dunque io prego e avvenga così». E mentre diceva questo trattenendo il fiato bevve fino in fondo, e con molta naturalezza e speditezza. E i più di noi sin qui s’erano finti capaci di contenersi, di non piangere, ma come vedemmo che beveva e aveva bevuto, allora non ne fummo più capaci, e pure per me con violenza stillanti corsero le lacrime, sicché coprendomi piangevo me stesso – ecco sì, dunque non lui, ma la mia sventura, di quale amico [117d] ero privato! Critone poi, anche prima di me, poiché non era capace di contenere le lacrime, s’era alzato per stare in disparte. Apollodoro, poi, anche nel tempo precedente non era per nulla posato nel piangere, e quando allora sconquassato proruppe in alti gemiti non ci fu alcuno dei presenti cui non spezzò il cuore, sì, eccetto che allo stesso Socrate.

Egli dunque disse: «Che fate, strambi? Toh, io specialmente per questo ho congedato le donne, affinché non [117e] stonassero in tal modo; eppure, ecco, ho udito che bisogna terminare in buona favella. Ma allora state calmi e dominatevi».

E noi, udendolo, ci vergognammo e ci trattenemmo dal piangere. Ed egli andò in giro e, quando disse che le gambe gli s’appesantivano, si sdraiò supino: così infatti raccomandò quell’uomo, e subito costui, che gli aveva dato il veleno, toccandolo a intervalli di tempo esaminava i piedi e le gambe, e poi, premutogli forte il piede, gli domandò se sentiva, [118a] ma lui disse di no. E dopo questo lo rifece sulle gambe, e così risalendo ci mostrò come si raffreddasse e s’irrigidisse. Ed egli proseguiva e disse che quando gli fosse giunto al cuore, allora se ne sarebbe andato.

Già quasi gli si erano raffreddate le parti intorno al ventre, e scopertosi – sì, si era coperto – disse – dunque risuonò per l’ultima volta la sua voce –: «Critone», disse, «dobbiamo un gallo ad Asclepio, ma dateglielo e non trascurate…»

«Ma sì», disse Critone, «sarà fatto, ma vedi se vuoi dire qualcos’altro».

A questa domanda egli non rispose più, ma, dopo un breve intervallo, si mosse e l’uomo lo scoprì, ed egli restava con gli occhi fissi; dunque Critone, vedutolo, gli richiuse la bocca e gli occhi.

Questa fu la fine, Echecrate, del nostro compare, dell’uomo – possiamo dirlo – migliore tra coloro che abbiamo allora esperito e senz’altro il più saggio e il più giusto.


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