Platone, Fedone (3)
Platone, Fedone (3)
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E Simmia, intervenendo, disse: «Che è questo che raccomandi, Socrate, a Eveno? Più volte, ecco, ho già incontrato quell’uomo: ebbene, di sicuro, da quel che io ho sentito, in nessun modo si fiderà volontariamente di te».
«Ma come? Non è forse filosofo, Eveno?»
«Mi sembra di sì», disse Simmia.
«Lo vorrà allora Eveno, e lo vorrà ognuno che sia coinvolto degnamente in questa attività. Comunque, non dovrà far violenza a se stesso: dicono infatti che non è lecito». E, dicendo questo, simultaneamente abbassò [61d] le gambe a terra e restò seduto così per il resto del dialogo.
Gli domandò quindi Cebete: «Come fai a dire questo, Socrate, che non è lecito far violenza a se stessi, e che tuttavia il filosofo seguirebbe chi muore?»
«Ma come, Cebete, non avete udito Filolao su tali argomenti tu e Simmia, che ne siete stati seguaci?»
«Nulla, ecco, di chiaro, Socrate».
«Beh, ma anch’io parlo di ciò per sentito dire; però non ho nessuna remora a dire ciò che mi è accaduto di sentire. E infatti forse [61e] è soprattutto a chi sta per emigrare nell’aldilà che si addice investigare e favoleggiare sull’emigrazione verso là, quale crediamo che essa sia; infatti che altro potrebbe fare uno nel frattempo, fino al tramonto del sole?»
«Però perché, ordunque, dicono che non è lecito che uno uccida se stesso, Socrate? Di già ecco io udii ciò che or ora tu chiedevi anche da Filolao, quando soggiornava presso di noi, e poi anche da alcuni altri, che non si dovrebbe fare questo, ma non ho mai udito nulla di chiaro su questo da nessuno».
[62a] «Ma bisogna incoraggiarsi», disse; «presto infatti potrai udirne. Ebbene, forse ti parrà stupefacente che solo questo caso, rispetto all’insieme di tutti gli altri, sia semplice, e non accada mai agli uomini, come anche per gli altri enti, che per alcuni è meglio vivere che morire, ma per coloro per i quali è meglio morire, forse ti parrà stupefacente che per questi uomini non sia azione santa il far del bene a se stessi, ma si debba rimanere in attesa di un altro benefattore».
E Cebete, sorridendo, «Anvedi Giove!», disse, parlando nel suo dialetto.
[62b] Disse Socrate: «Eh sì, così potrebbe sembrare che sia illogico. Ma non è proprio così: forse una qualche logica ce l’ha. Ebbene, il discorso proferito intorno a ciò nei misteri interdetti, che noi uomini siamo come in guardina e dunque non si deve sciogliersi da essa né evadere, mi pare un grande discorso e non facile da distinguere; tuttavia questo mi sembra, Cebete, che sia ben detto: che gli dei sono quelli che si prendono cura di noi e noi uomini siamo tra i possessi degli dei. O non ti sembra sia così?»
«A me sì», dice Cebete.
[62c] Ed egli disse: «Quindi, anche tu, se uno dei tuoi possessi si suicidasse senza che tu gli abbia segnalato che vuoi che esso muoia, non ti adireresti con lui e, se avessi qualche modo di castigarlo, non lo castigheresti?»
«Assolutamente sì», disse.
«Forse allora, in questa prospettiva, non è illogico che non si debba uccidersi prima che il dio ce lo commini come una necessità, quale quella che proprio adesso si presenta a noi».
Disse Cebete: «Ma sì, questo pare verosimile. Ma ciò che or ora dicevi, che i filosofi con facilità vorrebbero [62d] morire, questo assomiglia, Socrate, a un’assurdità, se pure ha buona logica ciò che or ora dicevamo, che è il dio a prendersi cura di noi e noi siamo suoi possessi. Infatti che i più assennati non soffrano uscendo da questo servizio, nel quale coloro che soprastanno loro sono i soprastanti migliori che ci sono, gli dei, non ha logica: nessuno, ecco, crederebbe affatto di prendersi meglio cura di sé, divenuto libero. Ma sarebbe proprio mentecatto un uomo che credesse questo, che c’è da fuggire [62e] dal padrone, e non ragionasse su ciò, che non si deve fuggire da quello buono, ecco, ma rimanergli massimamente appresso, per cui lo fuggirebbe irrazionalmente. Chi, invece, ha intelletto anelerebbe a essere proprio sempre presso chi è migliore di lui. Eppure così, Socrate, si evidenzia che è il contrario di ciò che or ora si diceva: ecco, si addice agli assennati soffrire di dover morire, ai dissennati, invece, gioirne».
E, mentre ascoltava, Socrate mi sembrò compiacersi della trattazione di Cebete [63a] e, volgendo gli occhi verso di noi, disse: «Toh, Cebete rintraccia sempre degli argomenti e assolutamente non gli garba di fidarsi subito di ciò che uno può dirgli».
E Simmia disse: «Ma, Socrate, adesso anche a me sembra, ecco, che Cebete dica qualcosa: perché infatti, volendolo, uomini sapienti fuggirebbero padroni davvero migliori di loro e, da faciloni, se ne andrebbero altrove, via da loro? E mi sembra che Cebete verso di te protenda il suo argomento perché così facilmente sopporti di lasciare sia noi sia dominatori… buoni, come tu stesso concordi: gli dei».
[63b] Disse: «Dite? Giusto! Credo, ecco, che quel che voi dite sia che bisogna che io mi difenda di fronte a queste accuse, come in tribunale».
«Assolutamente sì», disse Simmia.
«Forza dunque», disse poi lui, «tenterò di fronte a voi di difendermi più persuasivamente che di fronte ai giudici. Io infatti», disse, «o Simmia e Cebete, se non credessi di giungere anzitutto presso altri dèi sapienti e buoni e inoltre presso uomini morti migliori di quelli di qui, non la farei giusta a non soffrire per la morte; ora, però, ben sapete che [63c] spero di arrivare presso uomini buoni, anche se non potrebbe vigere in me una certezza totale su questo, mentre di giungere presso gli dèi, padroni totalmente buoni, ben sapete che se in me vigesse certezza su un’altra di tali cose, ebbene sarebbe su questa, cosicché, per questo, non soffro in modo consimile, ma sono speranzoso che ci sia qualcosa per chi è morto e, proprio come dall’antichità si dice, di molto migliore per i buoni che per i malvagi».
«E allora, Socrate?», disse Simmia, «hai in mente di andartene tenendo per te questo pensiero, o lo donerai anche a noi? [63d] Ecco, a me dunque sembra che questo sia un bene comune anche a noi, e insieme sarà la tua difesa se ciò che dici ci persuaderà».
«Ma sì, tenterò», disse, «prima però esaminiamo che cos’è che mi sembra Critone qui voglia dirci da un po’».
«Che altro, Socrate», disse Critone, «se non che da un po’ chi sta per darti la pozione mi dice che bisogna consigliarti di dialogare il meno possibile? Dice infatti che ci si accalora molto a dialogare, ma non si deve per nulla in tal modo interferire [63e] colla pozione, sennò alcune volte è necessario che bevano due e anche tre volte quelli che fanno qualcosa di tal fatta».
E Socrate disse: «Lascalo andare e tante grazie; piuttosto si prepari solo a darmene due volte, se si deve, e anche tre».
«Ma ovvio, lo sapevo», disse Critone, «ma mi tiene indaffarato da un po’».
«Lascialo andare», disse. «Ma dunque a voi giudici voglio ormai dare ragione di come mi pare evidente che un uomo che con tutto il suo essere ha trascorso la vita in filosofia debba ingagliardirsi quando sta per [64a] morire ed essere speranzoso che là gli si recheranno i massimi beni, dopo che sarà morto. Ordunque, cercherò di dire, Simmia e Cebete, come le cose possano stare in tal modo».
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