Platone, Fedone (26)
Platone, Fedone (26)
Dic 16Brano precedente: Platone, Fedone (25)
FEDONE: Per come ricordo io, allorché gli fu concesso questo [102b] e si concordò che ciascuna delle idee è e che gli altri enti, prendendo parte a queste, ottiene la sua denominazione proprio da esse, dopo di ciò dunque domandò: «Se dunque», disse lui, «strutturi così questi argomenti, allora, quando dici che Simmia è maggiore di Socrate in altezza e che Fedone invece è minore, allora non argomenti forse che grandezza e piccolezza sono entrambe in Simmia?»
«Io sì».
«Ma, ecco», disse poi lui, «concordi che il fatto che Simmia superi in altezza Socrate, così come è detto con queste parole, non contiene anche il vero [102c]? Non concordi ecco, sul fatto che superare non è punto connaturato a Simmia, in quanto è Simmia, ma alla grandezza che gli capita di avere, e neanche superare Socrate gli è connaturato perché Socrate è Socrate ma perché Socrate ha piccolezza in relazione alla grandezza di lui?»
«Vero».
«Sì; concordi anche che è superato da Fedone non per il fatto che Fedone è Fedone ma perché Fedone ha grandezza in relazione alla piccolezza di Simmia?»
«È così».
«Così allora Fedone ha denominazione di essere piccolo e grande essendo in mezzo ad ambedue, sottomettendo la sua piccolezza alla grandezza dell’uno [102d] perché la superi e presentando all’altro la propria grandezza perché ne superi la piccolezza». E, ghignando, disse: «Si vede che parlo come un notaio, ma sì, insomma, sta di fatto che è così come argomento».
Consentì.
«Argomento dunque così perché voglio che anche tu abbia la dottrina che ho io. Ecco: mi pare non solo che la grandezza in sé stessa non voglia mai essere insieme grande e piccola, ma anche che la grandezza in noi non accetti il piccolo né voglia esserne superata, ma delle due l’una, o fugge o si scosta quando le [102e] va incontro il contrario (il piccolo) o, all’approssimarsi di quello, va in rovina; però non vuole essere altro da ciò che era sopportando e accogliendo la piccolezza. Io, pur avendo accolto e sopportato la piccolezza, sono ancora come sono, da piccolo sono ancora questo medesimo io, ma, come quel che è grande non tollera di essere piccolo, così, allo stesso modo, anche il piccolo che è in noi non vuole mai divenire grande né esserlo, né nessun’altro dei contrari tollera di diventare ed essere il suo contrario e insieme essere ancora ciò che era [103a], ma o si allontana o va in rovina patendo questo».
«In tutto e per tutto», disse Cebete, «così pare pure a me».
E, udito ciò, uno dei presenti ‒ però non rammento chiaramente chi fosse ‒ disse: «Per gli dèi, ma non s’era noi d’accordo negli argomenti di prima proprio sul contrario di quel che si argomenta adesso, sul fatto che dal minore si genera il maggiore e dal maggiore il minore e, non sottilizzando, che questa è la genesi dei contrari: dai loro contrari? Ora però mi sembra si argomenti che questo non può mai avvenire».
E Socrate, volto il capo e uditolo, [103b] disse: «Bravo, che te ne sei rammentato; comunque non hai inteso la differenza tra ciò che si argomenta adesso e ciò che si è argomentato allora. Allora infatti si argomentava che da cosa contraria si genera la cosa a lei contraria; adesso, invece, che il contrario in sè stesso non può mai divenire contrario a se stesso, né quello in noi né quello nella natura. Allora infatti, amico, argomentavamo sulle cose che contengono i contrari denominandole con la denominazione di essi; adesso, invece, su di essi, dei quali le cose denominate hanno la denominazione, in quanto quelli sono in esse [103c]; sono dunque i contrari in sé stessi che diciamo non vorrebbero mai accogliere la generazione dell’uno dall’altro». E simultaneamente, dando un’occhiata a Cebete, disse: «Non sarai mica anche tu, Cebete, turbato dalle parole che costui disse?»
«Neanch’io ho questi turbamenti; comunque neppure dico di non avere molti altri, di turbamenti».
«Concordiamo allora», disse poi lui, «semplicemente su questo: giammai un contrario sarà ciò che gli è contrario».
«In tutto e per tutto».
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