Platone, Fedone (2)
Platone, Fedone (2)
Ago 19Brano precedente: Platone, Fedone (1)
ECHECRATE: E dunque, che ci dici sui discorsi che ci furono?
FEDONE: Io tenterò di raccontarti tutto dall’inizio. [59D] Dunque… Ecco: sempre, anche nei precedenti giorni, solevamo far visita, io e gli altri, a Socrate, radunandoci all’alba al tribunale in cui avvenne anche il giudizio: era infatti vicino al carcere. Rimanevamo quindi ogni volta nei paraggi sinché si riaprisse il carcere intrattenendoci l’un l’altro siccome non era aperto presto; poi, quando era aperto, entravamo da Socrate e il più delle volte passavamo tutta la giornata con lui. Anche quella volta ci radunammo, però prima: infatti, il giorno precedente, [59e] quando uscimmo dal carcere di sera, venimmo a sapere che la nave da Delo era arrivata. Ci passammo quindi parola l’uno all’altro di venire al più presto al solito posto, e venimmo e, avvicinandocisi, il guardiano che di solito ci dava ascolto disse di rimanere lì e non avanzare prima che ce lo comandasse lui. «Ecco, gli undici sciolgono Socrate», disse, «e annunciano per oggi l’esecuzione». Non attendendo quindi molto tempo, venne e ci ordinò di entrare. Ed entrando scorgemmo Socrate appena sciolto e Santippe ‒ la conosci sì ‒ che teneva il suo bambino e gli sedeva accanto. Come ci vide Santippe levò alti lai e disse cose tali, quali sogliono le donne, perché disse: «Oh Socrate, per l’ultima volta dunque adesso ti parleranno i tuoi sodali e tu a loro!», e Socrate, guardando verso Critone, disse: «Critone, qualcuno la conduca a casa».
E alcuni di quelli che erano con Critone la condussero via mentre urlava e si percuoteva; [60b] ma Socrate, risedendosi sul letto, contrasse la gamba, la strofinò con la mano e, mentre la sfregava, disse: «Si vede che è proprio una stranezza, gente, ciò che gli uomini chiamano piacere: come stupefacentemente è connaturato a quel che si opina esserne il contrario, il dolore, che assieme ad esso non vuole ingenerarsi nell’uomo, ma se qualcuno insegue e prende l’uno, è pressoché necessitato sempre a prendere anche l’altro, come fossero attaccati ad un unico capo, [60c] pur essendo due. E mi sembra», disse, «che se Esopo avesse riflettuto su questo avrebbe composto una favola: come il dio, volendo far alleare questi belligeranti, poiché non vi riusciva, attaccò insieme i loro capi nello stesso punto, e per questo a chi succede che si presenti l’uno poi si presenta anche l’altro, come si è evidenziato anche nel mio stesso caso: per la catena c’era sofferenza nella mia gamba, ma poi pare che arrivi il piacere, succedendo ad essa».
Quindi Cebete, prendendo la parola, disse: «Per Giove, Socrate, hai fatto proprio bene a ricordarmelo! Riguardo, ecco, [60d] ai poemi che hai creato volgendo in versi le narrazioni di Esopo e il proemio ad Apollo, degli altri mi han già chiesto, e pure Eveno l’altro ieri, a che cosa mai pensando, dopo che sei giunto qui, li creasti, tu che non ne creasti mai prima. Ebbene, se t’interessa qualcosa che io abbia da rispondere a Eveno quando me lo chiederà ancora ‒ sai bene infatti che lo chiederà ‒ di’ che cosa bisogna riferire».
Disse: «Allora digli il vero, Cebete: che li ho creati non volendo essere antagonista suo e dei suoi poemi ‒ sapevo infatti che non sarebbe stato facile ‒ ma sperimentando alcuni sogni, che cosa dicessero, e togliendomi lo scrupolo di capire se mi ordinavano di creare proprio questa musica. Ed ecco, dicevano cose tali e quali a queste: quel sogno identico che spesso mi visitava nella vita trascorsa, e ogn’altra volta m’appariva con un altro aspetto, ma dicendo le stesse cose, disse: “Socrate, crea ed esegui musica”. Ed io, nel passato, assumevo che esso mi comandasse e raccomandasse appunto quello che facevo: come fanno gli incitatori dei corridori, così anche a me il sogno raccomandava quello che facevo, di creare musica, [61a] siccome la filosofia è la musica massima, dunque io lo facevo. Adesso, però, da quando c’è stato il giudizio e la festa del dio m’impedisce di morire, mi sembrò, se mai il sogno mi ordinava spesso di creare musica ordinaria, che non dovessi disobbedirgli ma crearla, che fosse, ecco, più sicuro non andarmene prima di togliermi lo scrupolo [61b] creando poemi, fidandomi del sogno. Così dunque, per prima cosa, poetai per il dio la cui cerimonia presentemente si celebra; ma, dopo aver pensato al dio, riflettei su ciò: che un poeta dovrebbe, se intende essere poeta, creare favole e non argomenti, e, giacché io non ero favolista, feci dunque poesie delle favole che avevo sottomano e mi stavano impresse in mente, quelle di Esopo, nelle quali per prime m’imbattei. Quindi, Cebete, di’ queste cose a Eveno, e che stia in salute e, se è saggio, che mi segua al più presto. [61c] Ma io me ne vado, come sembra, oggi: lo comandano, infatti, gli Ateniesi».
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