Temi e protagonisti della filosofia

Platone, Fedone (15)

Platone, Fedone (15)

Ott 21

Brano precedente: Platone, Fedone (14)

 

Quindi Socrate, scrutandoci, come spesso soleva, e sorridendo, disse: «Ebbene Simmia, è giusto ciò che dici. Se quindi qualcuno di voi è più portato di me a rispondergli, perché non lo fa? Si vede, ecco, che non si è adattato malamente all’argomento. Comunque mi sembra bisogni, prima ancora di proporre la risposta, udire da Cebete [86e] che cosa anche lui reclami sull’argomento, affinché, nel tempo intercorrente, decidiamo che cosa rispondere e, dopo averli ascoltati, o convenire con loro se sembra che cantino a tono o sennò sottoscrivere quel che si è già argomentato. Ma va’ avanti», disse poi lui. «Cebete, di’: che cos’era che ti turbava?»

«Allora te lo dico», disse poi lui: Cebete. «Ecco: l’argomento mi pare sia ancora allo stesso punto di prima e [87a] contenga implicitamente lo stesso reclamo che argomentavamo nei discorsi precedenti. Ecco: sul fatto che sia stato dimostrato in modo del tutto brillante e, se non è gonfio a dirsi, del tutto a sufficienza che la nostra anima era anche prima di giungere a questa specie non faccio ritrattazione; non accolgo invece la dottrina su questo punto: che, morti noi, ci sia ancora; non convengo però con Simmia che obietta che l’anima non è più vitale e più durevole del corpo: mi sembra infatti che, in tutto ciò, sia in tutto e per tutto differentissima dal corpo. Perché dunque ‒ potrebbe dire l’argomento ‒ diffidi ancora nonostante tu veda che, morto l’uomo, ciò che pur è meno forte ancora è? Dunque [87b] non ti sembra sia necessario che ciò che è più durevole sia ancora salvo in questo tempo? A questo proposito esamina se con quel che dico argomenti qualcosa: si vede, ecco, che devo usare qualche immagine anch’io come Simmia. A me, ecco, sembra che ciò potrebbe esser similmente argomentato qualora qualcuno intorno a un anziano tessitore morto argomentasse l’argomento che quest’uomo non è estinto ma è sano e salvo e presentasse come prova il mantello che indossava, intessuto da lui stesso, e argomentasse che è salvo e non è estinto, e se qualcuno [87c] diffidasse di lui, chiedesse se è più duraturo il genere dell’uomo o quello del mantello che è in uso ed è portato da lui, e poi, dopo la risposta che quello dell’uomo dura di più, credesse fosse dimostrato totalmente al meglio che allora sì che l’uomo è salvo poiché anzi ciò che è meno durevole non è estinto. Però, Simmia, questo, credo, non sta così: ecco, esamina anche tu i miei argomenti. Ognuno assumerebbe che colui che argomenta questo argomenta alla buona: questo tessitore qui, infatti, che ha consumato e ha tessuto molti di tali mantelli, si estingue dopo che [87d] ce ne sono stati molti, ma, credo, si estingue prima dell’ultimo, e ciò nonostante l’uomo non è per nulla peggiore o più debole del mantello. L’anima rispetto al corpo potrebbe, credo, ammettere questa stessa immagine, e mi parrebbe che uno che argomentasse così intorno a ciò argomentasse  misuratamente che, mentre l’anima è più durevole, il corpo è più debole e meno durevole; ma, ecco, direbbe che ciascuna delle anime consuma molti corpi, tanto più se vive molti anni ‒ se infatti il corpo scorresse e si distruggesse ancora vivente l’uomo, [87e]  ma l’anima ritessesse sempre il consumato, allora sarebbe necessario che, quando l’anima si estinguesse, le accadesse di avere quale abito l’ultima tessitura e ad estinguersi prima solo di questa, e, estinta l’anima, allora dunque il corpo dimostrerebbe la natura della sua debolezza e presto putrido si dileguerebbe. Sicché, con quest’argomento, c’è da disdegnare d’ingagliardirsi confidando che, [88a] dopo che siamo morti, la nostra anima ancora ci sia. Se infatti qualcuno concedesse a chi argomenta ancor di più di quello che tu argomenti, dando per concesso non solo che le nostre anime sono anche nel tempo prima che noi nasciamo ma anche che niente vieta che anche dopo che siam morti esse siano e saranno e più volte si genereranno e moriranno ancora ‒ l’anima infatti è ciò che è per natura così vitale che ha tenuta davanti al suo generarsi più volte ‒, ma dando questo per concesso non potrebbe concedere anche che essa non peni nelle molte nascite e non termini coll’estinguersi sì in tutto e per tutto in una delle morti e [88b] dicesse che però nessuno ha visto questa morte e questa dissoluzione del corpo che porta estinzione all’anima ‒ è impossibile infatti per ciascuno di noi percepirla ‒, se dunque tutto ciò sta così, a nessuno s’addice ingagliardirsi appresso alla morte ‒ sennò sarebbe un ingagliardirsi irriflessivo ‒ qualora egli non abbia modo di dimostrare che l’anima è in tutto e per tutto immortale e inestinguibile, e sennò è necessario che chi sta per morire tema sempre per la sua anima che, nel mentre della disgiunzione dal corpo, non s’estingua in tutto e per tutto».

 

Brano seguente: Platone, Fedone (16)


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