Temi e protagonisti della filosofia

Platone, Fedone (13)

Platone, Fedone (13)

Ott 10

Brano precedente: Platone, Fedone (12)

 

«Però al genere degli dei [82c] è lecito arrivare non a chi non ha filosofato e non ha abbandonato il corpo in totale purezza ma all’amante dell’apprendimento mentale. Ma in vista di questo, compare Simmia e compare Cebete, quelli che son rettamente filosofi s’astengono da tutti i desideri concernenti il corpo e han fermezza e non si danno ad essi non perché paventino tracollo economico e povertà come fan i più, che sono avari amanti delle ricchezze, e neppure perché temano il disonore e l’infamia della miseria, come gli amanti di potere e onori, poiché s’astengono da ciò».

«Infatti non si confarebbe loro, Socrate», disse Cebete.

[82d] «No affatto, per Giove», disse poi lui. «Ma, Cebete, coloro cui appunto interessi qualcosa della loro anima e non vivano plasmandosi sul corpo, costoro, detto grazie e arrivederci a tutti questi, non si portano sugli stessi passi di costoro, che, come sprovveduti, non vedono per qual via vadano, ma essi, ritenendo che non si debbano fare azioni contrarie alla filosofia e allo scioglimento e alla purificazione propri di essa, fan dunque una svolta tornante su quella via su cui essa li conduce, seguendola».

«Come, Socrate?»

«Io te lo dirò», disse. «Ecco», disse poi lui, «gli amanti dell’apprendimento mentale son consci [82e] che la filosofia, preoccupandosi per la loro anima, che è, parlando non artificiosamente, incatenata al corpo e incollatagli e dunque necessitata a esaminare gli enti non da sé mediante sé ma attraverso questo come attraverso le sbarre ed è arrotolata in un’ignoranza totale, e intravedendo che la terribilità delle sbarre è che sono il desiderio, sicché l’incatenato stesso [83a] sarebbe il miglior coadiutore dell’incatenare ‒ ciò che quindi dico è che gli amanti dell’apprendimento mentale son consci che la filosofia, preoccupandosi per la loro anima, che è in uno stato così, la consiglia con precauzione e pone mano a scioglierla dalle catene indicando che è madido d’inganno l’esame mediante gli occhi, e anche quello mediante gli orecchi e le altre sensazioni, persuadendola dunque ad allontanarsi da queste, se non per quel tanto che è necessario usarle, e raccomandandole di collegarsi a sé e rinchiudersi in sé e di non confidare in nient’altro che [83b] in sé stessa, quale che sia l’ente in sé e per sé che essa in sé e per sé voglia intuire, e a non ritenere per niente vero l’ente alterabile in altri enti che può esaminare mediante gli altri sensi: mentre tale ente è sensibile e visibile, ciò cui essa guarda è intelligibile e invisibile. Quindi, credendo di non dover contrapporsi a questo scioglimento, l’anima di chi è per davvero filosofo s’astiene così, per quanto può, dai piaceri, dai desideri, dai dolori e dalle paure, ragionando: qualora uno fosse troppo affetto da piacere o paura o desiderio, da [83c] essi non patirebbe nessun male tanto grave quanto si potrebbe credere, come esser malato o aver scialacquato gli averi a causa dei desideri, ma patisce quello che tra tutti è il male massimo ed estremo, e non ci ragiona».

«Che male è questo, Socrate?», disse Cebete.

«Che l’anima d’ogni uomo è necessitata, simultaneamente all’esser affetta da troppo piacere o dolore, a ritenere che quello per cui soprattutto patisce ciò sia chiarissimo e verissimo, pur non essendo così; ma questo si ha soprattutto con gli enti visibili, o no?»

«Assolutamente sì».

[83d] «Quindi non è forse soprattutto in questo patimento che l’anima è incatenata dal corpo?»

«Ma come dunque?»

«Perché ciascun piacere e dolore, come avesse un chiodo, la inchioda al corpo e la trapassa e la rende corporea d’aspetto perché le sembra che sia vero ciò che anche il corpo dice esser vero. Ed ecco che da questa somiglianza di dottrina illusoria col corpo e dal gioire delle stesse gratificazioni è necessitata, credo, a divenire simile ad esso in modi e maniere e tale da non poter arrivare in purezza all’Averno ma da uscire dal corpo riempitane, così da ripetere presto la caduta in [83e] un altro corpo e, come inseminata, germogliare, e per questo non essere meritevole della compresenza del divino e puro e uniforme».

«Dici cose verissime, Socrate», disse Cebete.

«In ragion di ciò, orbene, Cebete, quelli che amano giustamente l’apprendimento mentale sono regolati e coraggiosi, non in ragione di ciò che i più dicono; o tu credi loro?»

[84a] «Io? Nient’affatto».

«No infatti, tutt’altro: così ragionerebbe l’anima di un filosofo virile e non potrebbe credere che, anche se la filosofia serve a scioglierla, quando è sciolta, abbia da dare se stessa a piaceri e dolori e incatenarsi daccapo e fare un’inutile opera tessendo qualche tela di Penelope al contrario, ma, procacciandosi tranquillità da essi, seguendo la razionalità ed eternando il suo essere in essa, [84b] contemplando il vero, il divino e il non illusorio e di esso nutrendosi, crede di dover vivere così sin quando viva e, dopo che abbia terminato la vita, giunta a quel che è congenere e tale e quale a lei, di alienarsi dagli umani mali. Simmia e Cebete, con tale nutrimento dunque nulla è terribile, essa non deve paventare, benché strappata via nell’alienazione dal corpo, di andarsene via spazzata ed estinta dai venti e di non essere più nulla in nessun luogo».

 

Brano seguente: Platone, Fedone (14)


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