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Platone, Apologia di Socrate (7)

Platone, Apologia di Socrate (7)

Set 24

 

 

Brano precedente: Platone, Apologia di Socrate (6)

 

Ma ecco, o uomini d’Atene, per provare che non delinquo secondo l’accusa di Meleto, mi sembra che non ci sia bisogno di una lunga difesa ma che siano sufficienti anche solo questi argomenti; inoltre ben sapete che è vero ciò che argomentavo anche in precedenza: che s’è generato molto odio verso di me e da parte di molti. E questo è ciò che mi condannerà, se mi condannerà, non Meleto né Anito, ma la calunnia e l’invidia dei più. Le quali cose, dunque, [28b] han condannato anche molti altri uomini pur buoni, e, credo, ne condanneranno ancora; nessun pericolo dunque che posino con me.

Forse quindi qualcuno potrebbe dire: «E non ti vergogni, o Socrate, di esserti occupato d’un’occupazione tale per cui rischi adesso qui di morire?». Io dunque dinnanzi a costui potrei controargomentare con un giusto discorso, cioè: «Non argomenti bene, o uomo, se credi che debba ragionare sul rischio di vivere o morire un uomo che sia d’una qualche utilità, anche piccola, e non ispezionare soltanto questo, quando agisce, se compie azioni giuste od ingiuste ed [28c] opere da uomo buono o malvagio. Sciocchi, infatti, per il tuo argomento, sarebbero quanti tra i semidèi morirono a Troia, oltre agli altri anche il figlio di Teti [1], il quale disprezzò tanto il rischio pur di non sottostare a qualcosa di vergognoso che, quando la madre, che era una dea, a lui, desideroso di uccidere Ettore, parlò in questo modo qui, come io credo: “O figlio, se vendicherai l’assassinio del tuo compare Patroclo uccidendo Ettore, tu stesso morirai:

ecco, subito dopo Ettore è pronta la tua sorte [2]”,

egli, udito questo, ebbe poco riguardo per la morte ed il rischio; invece, temendo molto di più il vivere [28d] da vile e non vendicare gli amici, dice: “Che io possa morire subito, facendo giustizia dell’ingiusto, affinché non rimanga qui ridicolo presso le navi ricurve, peso inutile della terra”. Non crederai mica che egli si sia impensierito per la morte ed il rischio?».

Ecco, è così, o uomini d’Atene, in verità; ove uno si sia collocato ritenendo fosse il meglio o sia stato collocato dal comandante [3], lì deve, così mi sembra, rimanere a rischiare, non preoccupandosi per niente né della morte né di nient’altro più che della turpitudine. Io quindi mi sarei comportato spaventosamente, o uomini [28e] d’Atene, se, quando i comandanti che voi sceglieste per comandarmi a Potidea e ad Anfipoli ed a Delio [4] mi posizionarono, allora fossi rimasto, come chiunque altro, dove mi avevano posizionato ed avessi rischiato di morire, mentre, benché il dio abbia disposto, come io ho creduto ed assunto, che io dovessi vivere filosofando ed esaminando me stesso e gli altri, in questo frangente, [29a] spaventato o dalla morte o da qualsiasi altra cosa, lasciassi la mia posizione. Sarebbe terribile e veramente allora qualcuno potrebbe trascinarmi giustamente in tribunale, giacché non credo ci siano dèi se disobbedisco all’oracolo e temo la morte e penso d’essere sapiente pur non essendolo: è infatti opinare di sapere ciò che non si sa. Nessuno infatti sa neppure se non si dia il caso che la morte sia il maggiore di tutti i beni per l’uomo; la temono, invece, come se sapessero bene che [29b] è il maggiore dei mali. E come fa a non essere ignoranza questa, la più riprovevole, pensare di sapere ciò che non si sa? Io dunque, o uomini, per questo ed in questo differisco dalla maggioranza degli uomini, e se dunque per qualche ragione professassi di essere più sapiente di qualcuno, allora professerei di esserlo in questo, nel fatto che, siccome non ne so a sufficienza sulle cose inerenti all’Ade, neanche penso di saperne; invece il delinquere e disobbedire a colui che è migliore, dio od uomo, so che è malvagio e turpe. Quindi non temerò mai né [29c] fuggirò quei mali che non so se si dia il caso siano anche beni piuttosto di quelli di cui so che sono mali; sicché neppure se adesso voi mi assolveste, diffidando di Anito, che affermò che o fin dall’inizio io non dovevo arrivare qui o, nell’occasione vi arrivassi, non era possibile non mandarmi a morte, argomentando che, se io vi fossi sfuggito, allora i vostri figli, occupandosi degli argomenti che Socrate insegna, si sarebbero corrotti tutti in tutto e per tutto ‒ se relativamente a questo mi diceste: «O Socrate, adesso non ci faremo persuadere da Anito ma ti assolveremo, comunque a questa condizione: che non trascorra più il tempo in questa ricerca e non filosofi più; qualora invece sia colto a farlo ancora, [19d] morirai» ‒ se quindi, come dicevo, mi assolveste a queste condizioni, allora vi direi ciò: «Io per voi, o uomini d’Atene, provo affetto ed amicizia, ubbidirò però al dio piuttosto che a voi, e sinché respiri e ne sia capace non poserò dal filosofare e dal dar raccomandazioni ed indicazioni a chiunque di voi incontri, dicendo le argomentazioni che son solito dire, cioè: “O eccellente tra gli uomini, tu che sei ateniese, della città più grande e più favorita per sapienza e forza, non ti vergogni di curarti delle ricchezze così da averne [29e] il più possibile, e così della gloria e degli onori, mentre dell’intelligenza e della verità e dell’anima, affinché sia la migliore possibile, non ti curi né ti dai pensiero?”. E se qualcuno di voi contesterà ed affermerà di curarsene, non lo lascerò andare subito e non me ne andrò, ma lo interrogherò e l’esaminerò e lo confuterò, e se mi [30a] sembra che non possieda virtù, pur professandolo, lo biasimerò giacché tiene nel minimo conto le cose del massimo valore, mentre nel massimo le più sciocche. Questo farò con chiunque incontrerò, giovane o vecchio, straniero o cittadino, ma di più con voi cittadini, in quanto mi siete più affini per stirpe. Questo infatti comanda il dio, sappiate bene, e io penso che per voi non ci sia bene maggiore, nella città, del mio servizio al dio. Infatti vado in giro non facendo null’altro se non persuadervi, giovani e vecchi, a non curarvi né dei corpi [30b] né delle ricchezze prima e così ferventemente come dell’anima, di modo che sia la migliore possibile, argomentando che non dalle ricchezze si genera la virtù, ma dalla virtù le ricchezze e tutti quanti gli altri beni per gli uomini sia in privato sia in pubblico. Se quindi dicendo questi argomenti corrompessi i giovani, allora essi sarebbero dannosi; se però qualcuno afferma che io ne argomenti altri invece di questi, il suo argomentare è nullo. Relativamente a questo», direi allora, «che siate persuasi da Anito o no, che m’assolviate o no, sia come sia, io [30c] non farò altrimenti, neppure se dovessi morire più volte».

 

Note

[1] Achille.

[2] Il., XVIII, 96.

[3] Metafora militare.

[4] Battaglie cui Socrate partecipò.

 

 


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