Platone, Apologia di Socrate (4)
Platone, Apologia di Socrate (4)
Set 03
Brano precedente: Platone, Apologia di Socrate (3)
Quindi, dopo questi avvenimenti, procedevo sequenzialmente, pur sentendo, addolorato ed impaurito, che ero odiato; comunque mi sembrava fosse necessario tenere in grandissimo conto quel che aveva detto il dio: bisognava andare, quindi, ispezionando che cosa significasse l’oracolo, da tutti [22a] coloro che erano reputati sapienti. E, per il cane, o cittadini Ateniesi, ‒ a voi, ecco, si deve dire il vero ‒ mi capitò qualcosa di tal sorta: mi sembrò che quelli reputati migliori dovessero essere per poco quelli manchevoli al massimo, cercando in accordo col dio, mentre altri che sembravano più sciocchi fossero uomini più predisposti ad ottenere saggezza. Devo dunque indicarvi il mio vagare, siccome ho penato alquanto perché il vaticinio divenisse per me pure inconfutabile. Dopo i politici, infatti, andai dagli autori, da quelli di tragedie e [22b] da quelli di ditirambi e dagli altri, siccome lì avrei colto me stesso in flagrante nell’essere più ignorante di loro. Prendendo quindi, tra i loro poemi, quelli che mi sembravano esser stati elaborati al meglio da loro, chiedevo loro che cosa mai intendessero dire, anche per imparare simultaneamente qualcosa da loro. Mi vergogno quindi a dirvi, o uomini, il vero; comunque bisogna dirlo. Per così dire, ecco, per poco tutti quanti i presenti non avrebbero parlato meglio di loro sui poemi che essi avevano composto. Venni quindi a conoscenza in poco tempo anche per quanto riguarda i poeti di questo: che non per sapienza componevano [22c] i poemi che componevano, ma per qualcosa d’innato ed ispirati come gl’indovini ed i medium: anche costoro, ecco, di cose ne dicono molte e belle, eppure non sanno nulla di ciò che dicono. Mi parve che anche i poeti fossero affetti da una qualche affezione di questa sorta, ed assieme percepii che essi, a causa della poesia, credevano di essere più sapienti degl’altri uomini anche nelle altre cose, nelle quali non lo erano. Me ne andai quindi anche da lì credendo di esser più nobile rispetto a loro per la stessa ragione per cui ero più nobile rispetto ai politici.
Terminando, quindi, andai dagli artigiani: ecco, tra me e me [22d] ero conscio di non conoscere nulla, per così dire, sapevo però che li avrei trovati conoscitori di molte e belle scienze. E su questo non mi sbagliavo, ma conoscevano cose che io non conoscevo ed in questo erano più sapienti di me. Ma, o uomini d’Atene, anche i buoni artigiani mi sembrarono avere la stessa pecca che avevano i poeti ‒ per il fatto di esercitare bene la tecnica ciascuno stimava di essere il più sapiente anche sulle altre cose del massimo valore ‒ e questa loro stonatura [22e] comprometteva anche quella sapienza; sicché chiedevo a me stesso, per conto dell’oracolo, se accettavo di stare così come sono, senza essere in alcun modo né sapiente della loro sapienza né ignorante della loro ignoranza, o di averle entrambe come le avevano loro. Risposi quindi a me stesso ed all’oracolo che mi conveniva stare come sto.
Da quest’esame qui, dunque, o uomini d?Atene, [23a] si son generati molti odi contro di me, durissimi e gravissimi, sicché a partire da essi si son generate molte calunnie, dunque son designato con questa nomea di essere sapiente: ecco, i presenti credono ogni volta che io sia sapiente nelle cose su cui confuto un altro. C’è invece il rischio, o uomini, che sia il dio a esser realmente sapiente, e che con questo oracolo intenda dire questo: che l’umana sapienza vale poco o nulla. E pare che parli di questo Socrate, mentre utilizza [23b] il mio nome facendo un esempio con me, come se dicesse ciò: «Il più sapiente tra voi, o uomini, è colui che, come Socrate, riconosce di non valere nulla, in verità, quanto a sapienza». Per questo quindi io anche adesso peregrinando ricerco ed esploro, conformemente all’oracolo del dio, se possa credere che qualcuno, sia dei cittadini sia degli stranieri, sia sapiente; e, qualora mi sembri di no, aiutando il dio indico che non è sapiente. E per questo impegno per me non c’è stato tempo libero per fare qualcosa di significativo né per la città né per i famigliari, ma sono in [23c] grande povertà per il servizio al dio.
Oltre a questo, dunque, i giovani che mi accompagnano spontaneamente, che hanno moltissimo tempo libero, i figli dei più ricchi, godono a sentire esaminare gli uomini, ed essi stessi spesso mi imitano, e provano pure ad esaminare altri; ed allora trovano ‒ credo ‒ molta abbondanza di uomini che credono di sapere qualcosa, mentre sanno poco o nulla. Quindi quelli da loro esaminati s’adirano con me [23d] invece che con se stessi, e dicono che Socrate è uno luridissimo e corrompe i giovani; e qualora qualcuno chieda loro che cosa fa e che cosa insegna, non hanno nulla da dire e l’ignorano, però, per non sembrare in impasse, dicono le cose sottomano contro tutti i filosofi, cioè: «le cose celesti e le sottoterra» e «non crede negli dèi» e «rende più forte l’argomento più debole»: la verità, ecco, credo che non vogliano dirla, giacché verrebbero appalesati come finti sapienti, mentre non sanno nulla. E giacché, [23e] sono ambiziosi e gagliardi e numerosi, e parlano di me intensamente e persuasivamente, vi han riempito le orecchie calunniando da tempo e gagliardamente. Tra loro anche Meleto mi ha assalito, e Anito e Licone, Meleto arrabbiato per i poeti, Anito invece per gli artigiani ed i politici, [24a] e Licone per i retori, cosicché, come dicevo iniziando, mi stupirei se io fossi in grado, in così poco tempo, di strappare da voi questa calunnia divenuta così grande. Ecco a voi, o uomini di Atene, questa è la verità, e io ve la dico non nascondendo e non sottraendo né molto né poco. Eppure so appunto che mi faccio odioso proprio per questo, e ciò è traccia che dico il vero e che questa è la calunnia su di me e le cause sono queste. [24b] E se, adesso oppure un’altra volta, farete ricerca su questo, troverete che è così.
Brano seguente: Platone, Apologia di Socrate (5)