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Platone, Apologia di Socrate (15)

Platone, Apologia di Socrate (15)

Dic 03

 

 

Brano precedente: Platone, Apologia di Socrate (14)

 

[39e] Invece con coloro che m’hanno assolto dialogherei con piacere su questo fatto qui che è avvenuto, finché gli arconti sono impegnati e non vado ancora laddove, andatoci, io debbo morire. Ma, o uomini, rimanete con me durante questo tempo: nulla infatti vieta di chiacchierare tra noi [40a] sinché è possibile. A voi infatti, siccome siete amici, desidero indicare che cosa mai significa quel che mo mi è avvenuto. A me ecco, o signori giudici ‒ chiamandovi, ecco, giudici allora sì che vi chiamo rettamente ‒ è avvenuto qualcosa di stupefacente. Infatti l’ammonimento solito per me, quello del demone, in tutto il precedente tempo era sempre assolutamente frequente, assolutamente oppositivo anche nelle piccole cose se stavo per fare qualcosa di non retto. Mo invece mi son avvenute quelle che vedete anche voi, queste qui che, ecco, qualcuno potrebbe pensare e ritenere [40b] siano mali estremi; invece il segno del dio non mi si è opposto né al mattino quando uscivo di casa, né allorché salivo qua al tribunale, né in alcun modo quando stavo per dire qualcosa nel discorso. Eppure in altri discorsi spesso mi ha trattenuto a metà mentre parlavo; adesso invece per quanto riguarda questa faccenda non mi si è opposto in alcun modo né in opera né in parola alcuna. Che cosa quindi assumo ne sia causa? Io ve lo dirò: c’è il rischio, ecco, che questo, quel che mi è avvenuto, risulti un bene, e non c’è modo che [40c] noi assumiamo rettamente, quanti pensiamo che il morire sia male. C’è stata per me una grande prova di questo: ecco, non c’è modo che non mi si sia opposto il solito segno, se io non fossi stato in procinto di fare qualcosa di buono.

Concepiamolo dunque anche in questa maniera, siccome c’è grande speranza che esso sia un bene. Il morire infatti è una di queste due cose: o, ecco, è come essere niente ed il morto non ha nessuna sensazione di nulla, o, secondo quel che si dice, si dà il caso sia una qualche trasmutazione e trasloco per l’anima dal luogo di qua verso altro luogo. Anche se dunque è non avere alcuna sensazione ma è come [40d] un sonno, quando, dormendo, uno non guarda neppure un sogno, allora la morte sarebbe uno stupendo guadagno: io infatti penso che, se uno dovesse eleggere la notte in cui ha dormito in modo tale da non vedere neppure un sogno, e, confrontate le altre notti e giornate della sua vita con questa notte, dovesse, dopo aver ispezionato, dire quante giornate e notti abbia vissuto in modo migliore e più soave di questa nella sua vita, penso che, anche se fosse non un uomo comune ma il Gran Re, [40e] egli allora le troverebbe ben facili ad enumerarsi rispetto alle altre giornate e notti; se quindi tale è la morte, io, ecco, la definisco guadagno: ed infatti tutto il tempo pare così non essere nulla più di un’unica notte. Se invece la morte è come emigrare da qua verso un altro luogo ed è vero quel che si dice, che là sono tutti quanti i morti, quale bene sarebbe maggiore di questo allora, o signori giudici? Se infatti qualcuno, [41a] arrivato all’Ade, affrancatosi da questi qui che professano di essere giudici, troverà i veri giudici, i quali anche là si dice giudichino, Minosse e Radamante ed Eaco e Trittolemo e quanti altri dei semidèi son risultati giusti nella loro vita, allora sarebbe forse un’emigrazione triste? O ancora pagando quale prezzo non accetterebbe chiunque di voi di congregarsi con Orfeo e Museo ed Esiodo ed Omero? Io, ecco, desidero morire più volte se questo è vero. [41b] Poiché per me sarebbe proprio stupendo pure trascorrere il tempo lì qualora incontrassi Palamede ed Aiace Telamonio e chiunque altro degli antichi è morto per un giudizio ingiusto, raffrontando le mie vicissitudini alle loro ‒ orbene, non sarebbe spiacevole, così io penso ‒ e dunque anche il massimo, condurre la vita esaminando e frugando quelli di là come quelli di qua, chi di essi è sapiente e chi pensa di esserlo ed invece non lo è. Quale prezzo dunque chiunque, o signori giudici, accetterebbe di pagare per esaminare colui [41c] che guidò il grande esercito a Troia od Odisseo o Sisifo od altri innumerevoli che si potrebbero menzionare, sia uomini sia donne, dialogare coi quali là ed accompagnarsi ai quali ed esaminare i quali sarebbe una felicità incalcolabile? Quelli di là assolutamente non mandano a morte per questo, affatto: ed infatti per le altre cose sono più felici quelli di là di quelli di qua ed ormai per il tempo restante sono immortali, se, ecco, quel che si dice è vero.

Ma bisogna che anche voi, o signori giudici, siate speranzosi verso la morte, ed intendiate che questo unico quid è vero, che [41d] non c’è per un uomo buono nessun male né da vivente né da morto, e che le sue faccende non son trascurate dagli dèi; neppure le mie adesso si son generate dal caso, ma mi è chiaro questo, che ormai morire ed affrancarmi dagli affanni era meglio per me. E per questo il segno non mi ha distolto in alcun modo, e io, ecco, non m’indurisco assolutamente contro coloro che mi hanno condannato e coloro che m’hanno accusato. Eppure non mi hanno condannato ed accusato con quest’intenzione, ma [41e] pensando di danneggiarmi; per questo biasimarli è cosa degna per loro. Questo comunque domando loro: i miei figli, quando saranno adulti, puniteli, o uomini, infliggendo loro gli stessi dolori che io infliggevo a voi, se vi sembreranno curarsi o delle ricchezze o di qualcos’altro prima che della virtù, e se sembreranno essere qualcosa pur non essendo niente rimproverateli come io rimproveravo voi, giacché non si curano di ciò di cui dovrebbero e pensano di essere qualcosa pur non [42a] valendo nulla. E se farete questo, io avrò ricevuto da voi il giusto, io ed i figli. Ma, ecco, ormai è ora di andarsene, per me a morire, per voi invece a vivere; chi dunque di noi si rechi verso la cosa migliore, è oscuro a tutti tranne che al dio.

 

 


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