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Platone, Apologia di Socrate (11)

Platone, Apologia di Socrate (11)

Ott 22

 

 

Brano precedente: Platone, Apologia di Socrate (10)

 

E sia, o uomini; gli argomenti che io avrei per difendermi sono pressappoco questi e forse altri di tal sorta. Forse qualcuno [34c] di voi potrebbe arrabbiarsi rammemorando se stesso, se, contendendo in una contesa giudiziaria anche minore di questa contesa qui, pregò e supplicò i giudici tra molte lacrime, facendo venire in tribunale i suoi figli per rendere quanto più possibile compassionevoli, e molti altri tra famigliari ed amici, mentre io non farò alcuna di queste cose, e questo pur rischiando, come sembrerebbe, il rischio estremo. Forse quindi qualcuno, avendo riflettuto su queste cose, potrebbe avere più sdegno contro di me e, adirato per [34d] queste stesse ragioni, dare il voto con ira. Se dunque qualcuno di voi avesse quest’atteggiamento ‒ io, ecco, non lo dico per principio, ma se si desse il caso ‒ allora mi sembra che gli parlerei appropriatamente dicendo ciò: «Anch’io, o ottimo, ho dei famigliari; ed ecco, proprio secondo questo detto di Omero, neppure io “da quercia o da pietra” son nato ma da uomini, sicché ho sia famigliari sia figli, ecco, o uomini d’Atene, tre, uno ormai ragazzo e due bambini; comunque non vi pregherò d’assolvermi facendo venire qua qualcuno di essi». Perché dunque non farò nessuna di queste cose? Non per arroganza, o uomini d’Atene, [34e] né per disistima verso di voi; se io abbia gagliardia rispetto alla morte o no, è un altro discorso, ma rispetto alla reputazione sia mia sia vostra sia dell’intera città non mi sembra sia bello che io faccia alcuna di queste cose, essendo anziano ed avendo questa nomea ‒ sia che sia vera sia che sia falsa, comunque è opinione, ecco, diffusa [35a] che Socrate si differenzi dalla maggioranza degli uomini. Se quindi coloro che tra voi son reputati differenti o per sapienza o per coraggio o per qualsiasi altra virtù fossero tali, allora sarebbe una cosa brutta: io ne ho veduti spesso alcuni i quali, quando son giudicati, pur avendo una qualche reputazione, fanno cose stupefacenti, come se pensassero di patire qualcosa di terribile se moriranno, quasi fossero immortali se voi non li condannaste; mi sembra che costoro ricoprano di vergogna la città, sicché [35b] anche qualcuno degli stranieri potrebbe assumere che gli Ateniesi che si differenziano per virtù, che gli stessi Ateniesi scelgono nelle loro cariche e negli onori, costoro non si differenzino per nulla dalle donne. Ecco, o uomini d’Atene, non bisogna né che queste cose le facciate voi che siete reputati valere qualcosa, né, se noi le facessimo, le permettiate, ma bisogna che indichiate proprio questo: che condannerete molto di più colui che fa l’attore in questi drammi compassionevoli e rende ridicola la città che non colui che si comporta con serenità.

A parte la reputazione, o uomini, mi sembra non [35c] sia giusto neppure pregare il giudice né, pregandolo, sfuggirgli, ma informarlo e persuaderlo. Infatti il giudice non è insediato per questo, per regalare il giusto, ma per discernerlo; ed ha giurato non di gratificare chi gli pare, ma di giudicare secondo le leggi. Quindi non bisogna né che noi vi assuefacciamo a spergiurare né che voi vi c’assuefacciate: allora infatti né noi né voi saremmo pii. Quindi non pensiate, o uomini d’Atene, che io debba fare nei vostri confronti quelle tali azioni, che [35d] ritengo non siano né belle né sante, soprattutto, per Giove, mentre son accusato di empietà da Meleto, questo qui. Chiaramente, infatti, se vi persuadessi e col supplicarvi facessi violenza a voi che avete giurato, allora v’insegnerei a ritenere che non ci siano dèi, e semplicemente difendendomi accuserei me stesso di non credere negli dèi. Ma ci manca molto che sia così: ed infatti ci credo, o uomini d’Atene, come nessuno dei miei accusatori, e rimetto sia a voi sia al dio l’ufficio di giudicare su di me nella maniera che sarà migliore sia per me sia per voi.

 

Brano seguente: Platone, Apologia di Socrate (12)

 

 


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