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Platone, Apologia di Socrate (10)

Platone, Apologia di Socrate (10)

Ott 15

 

 

Brano precedente: Platone, Apologia di Socrate (9)

 

Quindi credete forse che io sarei campato per tanti anni se avessi fatto attività pubblica, e, agendo in modo degno d’un uomo buono, avessi soccorso la giustizia e, come bisogna, avessi tenuto questo nel massimo conto? Sarebbe troppo, o uomini d’Atene; ecco, non [33a] ce l’avrebbe fatta nessun altro uomo. Ma io per tutta la vita, sia in pubblico, allorquando ho fatto qualcosa in quest’ambito, sia in privato, apparirò sempre lo stesso, non avendo mai accordato nulla a nessuno contro il giusto, né ad altri né ad alcuno di coloro che i calunniatori affermano essere miei allievi. Io invece non son mai stato maestro di nessuno; se però qualcuno desidera ascoltarmi mentre argomento e faccio quel che mi compete, sia giovane sia vecchio, non mi son mai negato, e non [33b] è che argomenti se ricevo denaro, mentre se non ne ricevo non argomento, ma mi presto ad esser interrogato sia dal ricco sia dal povero e, se qualcuno vuole, ascolti ciò che argomento rispondendo. E non sarebbe giusto che mi sobbarcassi io la responsabilità del fatto che qualcuno di costoro divenga onesto oppure no: a nessuno di loro ho mai né promesso apprendimento né insegnato; casomai dunque qualcuno affermi di aver appreso o di aver sentito da me in privato qualcosa che non hanno sentito anche tutti gli altri, ben sapete che non dice il vero.

Ma perché mai dunque alcuni gradiscono [33c] trascorrere molto tempo con me? Lo avete sentito, o uomini d’Atene ‒ io vi ho detto tutta la verità ‒: perché gradiscono sentire che vengono esaminati coloro che pensano d’essere sapienti ma non lo sono. Non è infatti sgradevole. A me però, come io affermo, è stato ordinato dal dio di agire così, sia con oracoli sia con sogni sia in ogni modo in cui qualsiasi decreto divino abbia mai ordinato all’uomo di fare una qualunque cosa. Questo, o uomini d’Atene, è sia vero sia facile da dimostrare. Se, ecco [33d] dunque, dei giovani gl’uni li corrompo, gl’altri li ho corrotti, bisognerebbe ordunque che, se alcuni di essi, divenuti più vecchi, avessero riconosciuto che avevo dato loro, quand’erano giovani, qualche cattivo consiglio, adesso venendo qui mi accusassero e si vendicassero; se invece essi non volessero, alcuni dei loro famigliari, padri e fratelli ed altri tra i parenti, se i loro famigliari avessero patito qualche male da parte mia, adesso dovrebbero ricordarsene e vendicarsi. Tanto più che son qua presenti molti di essi, che io guardo, in primis Critone, questo qui, della mia età e [33e] del mio demo, padre di costui, Critobulo, poi Lisania di Sfetto, padre di costui, Eschine, ed ancora Antifonte di Cefisia, questo qui, padre di Epigene, toh pure questi altri, i cui fratelli son intervenuti in questa discussione, Nicostrato figlio di Teozotide, figlio di Teodoto ‒ anche se Teodoto è morto, cosicché egli non potrà scongiurarlo ‒ e Paralio, costui, figlio di Demodoco, cui [34a] fratello era Teage; costui dunque, Adimanto, figlio di Aristone, cui fratello è questo qui, Platone, ed Aiantodoro, cui fratello è Apollodoro, costui. E io ho la possibilità di dirvene molti altri, dei quali Meleto doveva assolutamente presentare qualcuno come testimone nel suo discorso; se dunque allora se n’era dimenticato, lo presenti adesso ‒ io mi faccio da parte ‒ e dica se ha qualche testimonianza di tal sorta. Ma troverete tutto il contrario di questo, o uomini: tutti pronti a soccorrere me che corrompo, che faccio del male ai loro famigliari, come affermano Meleto ed [34b] Anito. Essi, ecco dunque, i corrotti, forse potrebbero avere una ragione per soccorrere; coloro che invece non son stati corrotti, uomini ormai alquanto vecchi, i loro parenti, che altra ragione hanno per soccorrere me se non quella retta e giusta, cioè che son consapevoli che Meleto dice il falso, mentre io dico il vero?

 

Brano seguente: Platone, Apologia di Socrate (11)

 

 


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