Temi e protagonisti della filosofia

Il problema della salvezza nel pensiero antico

Il problema della salvezza nel pensiero antico

Ott 20

 

 

Per stabilire se in una certa epoca e presso un certo popolo una nozione sia stata inglobata in contenuti di esperienza e anche concettualmente formulata, è necessario guardare alla lingua e ricercare se di quella nozione esista vissuto linguistico.

Da questo inciso imprescindibile partì il Prof. Domenico Pesce nella sua relazione introduttiva al XXIII Convegno di Assistenti Universitari di Filosofia (Padova 1978) dal titolo “Il problema della salvezza”.
Egli, analizzando due testi del periodo romano, tenta di individuare dei punti di riferimento che corrispondano ai fondamentali quesiti: chi salva, da che cosa salva, come salva. Nella interpretazione religiosa chi salva è Dio, ciò da cui salva è il male come peccato e morte, i mezzi con cui salva sono fede e grazia. Nell’interpretazione filosofica, chi salva è il saggio, ciò da cui salva è il male come vizio e infelicità, i mezzi con cui salva sono dottrina e insegnamento. Nel mondo classico non cristiano si trovano ambedue le interpretazioni.
I due testi che Pesce prende in esame sono l’ultimo libro delle Metamorfosi di Apuleio [1], come esempio di interpretazione religiosa, e, quale esempio di interpretazione filosofica, la Tavola di Cebete [2], che, dopo secoli di straordinaria fortuna, è caduto pressoché nell’oblio.

Nella concezione misterica greca, la natura divina viene caratterizzata dagli attributi della beatitudine e dell’immortalità. La salvezza dell’uomo dall’infelicità e dalla morte viene intesa come una vera e propria deificazione. La condizione affinché l’uomo vi acceda è che si liberi dalla colpa, cioè da quella situazione oggettiva in cui viene travolto (consapevolmente o meno) da una forza irresistibile che lo acceca. A questo modo il male è relegato proprio entro quella sfera dell’ignoranza e della violenza che, nella riflessione filosofica di Aristotele, apparirà come posta al di fuori della vita etica, la quale richiede al contrario che l’azione sia volontaria [3].

Apuleio pone Dio al di sopra delle Idee platoniche e la religione viene ad essere superiore alla filosofia; da questo il suo rivolgersi ai culti orientali, nei quali la tendenza al monoteismo era più forte che non in quelli greci. In Metamorfosi la vicenda è tutta costruita attorno ad un tema di natura religiosa che assume la forma tipica della sequenza colpa-punizione-salvezza. La salvezza del protagonista si compie attraverso due fasi (ambedue espressamente contrassegnate dal termine salus), delle quali la prima, la miracolosa riassunzione della forma umana, è opera esclusiva della dea, mentre la seconda, il processo di iniziazione ai misteri, richiede l’iniziativa da parte del protagonista Lucio.
Analizzando il primo episodio appare chiaro che Iside, nel ridare forma umana al protagonista, gli restituisce pure quella libertà di decisione che lo rende soggetto attivo; mentre nella precedente condizione animale, cui era stato ridotto, egli era diventato semplice oggetto di “passione”.
Ma ovviamente la pena si collega ad una colpa. In effetti la storia di Lucio incominciò quando, innamoratosi di una giovane ancella la cui padrona era una maga potente, volle provare su di sé un unguento miracoloso, e venne così trasformato in un asino.
In che cosa è dunque consistita la colpa di Lucio? In generale gli studiosi ritengono che sia l’amore ancillare, che del resto doveva ben poco scandalizzare un antico. La vera colpa potrebbe consistere invece nel tentativo di impadronirsi delle arti magiche. Se non che, nell’ultimo libro, non si fa più parola né di questa curiosità per la magia né in generale della colpa, per cui sembra lecito chiedersi se anche la stessa trasformazione in asino, e l’occasione che la determina, non siano altro che un espediente per rappresentare in forma allegorica la condizione umana schiava dei capricci della fortuna. Ed infatti il discorso del sacerdote contenuto nel capitolo XV si apre e si chiude prima dell’esortazione finale con il tema della fortuna. Del resto il potere sulla fortuna sembra essere l’attributo principale di Iside, signora dell’universo, capace di sciogliere i nodi inestricabili del fato.
È dal giogo della fortuna, dunque, che si è accanita contro di lui, che Lucio vieni in definitiva liberato; salvato, perciò, non dal peccato, ma dall’infelicità.
A che cosa si riduce dunque l’avventura religiosa di Lucio, che pure ha tutti i caratteri di un’esperienza genuina? Ove si tolgano le pratiche rituali, pare non resti altro che una profonda emozione: di ammirazione per la bellezza e la potenza della dea, di gratitudine per la sua assistenza benefica, di devozione e di affetto.

Anche nell’operetta Tavola, attribuita a Cebete, l’infelicità dell’uomo dipende dalla sua soggezione alla fortuna, cieca sorda e insensata, raffigurata nel quadro come una donna posta su di una sfera, per la sua continua incostanza sempre pronta a togliere quel che ha donato. Se dunque non è possibile vincere la fortuna, non rimane altra via, per sottrarsi al suo dominio, che dichiarare che le cose su cui la fortuna ha potere non sono né beni né mali, ma cose che possono divenire entrambi in base all’uso che l’uomo ne fa. Poiché la sede propria dei valori non sta all’esterno ma all’interno dell’uomo, conoscere in cosa consista il bene e il male diventa cosa importante per le sorti della sua stessa esistenza. Per l’autore questa conoscenza è l’unico vero bene; male è ignorarla. Ecco perché egli riprende l’antica immagine platonica delle due vie presente anche nel proemio del poema di Parmenide.
Per dare maggiormente il senso della gravità della scelta, l’autore si rifà ad un altro mito, quello del tragico incontro con la Sfinge proponente un enigma la cui soluzione è questione di vita o morte. Simile appunto alla Sfinge è l’ignoranza contro cui l’uomo deve ingaggiare un duello mortale che lo vedrà salvarsi o soccombere.
Il motivo del potere salvifico della conoscenza è tutt’altro che nuovo nella filosofia antica, anzi la percorre tutta, intensificando la sua presenza negli Epicurei e negli Stoici; ma, mentre presso queste scuole si tratta di una vera e propria “scienza della natura” (conoscenza della realtà effettiva delle cose) alla cui norma l’uomo deve conformarsi se vuol raggiungere la felicità, l’autore della Tavola si ricollega piuttosto a quell’interpretazione della scienza del bene, libera da ogni presupposto fisico o metafisico, che ha lasciato Socrate e che era conservata nella tradizione cinica. Egli ritiene che la condizione naturale dell’uomo sia viziata da un difetto di origine, giacché tutti gli uomini – così come contenuto nella tradizione mitica – hanno dovuto bere la pozione dell’errore e dell’ignoranza.
Ecco perché il passaggio decisivo dall’ignoranza congenita alla conoscenza si attua secondo uno schema religioso: il passaggio è pentimento e conversione, la liberazione dall’errore è l’atto purificativo, la meta da raggiungere è la salvezza. Questa non si trova dunque nella natura, ma nella cultura-educazione, nella paideia.
La paideia si esaurisce nell’unica conoscenza concernente il bene e il male che causa il completo dominio delle passioni e conduce a quel coraggio che nasce dalla certezza che nessun male può più colpirci e infine, eliminato ogni motivo di tristezza, alla completa beatitudine.

I due testi analizzati posseggono il loro punto di incontro nel tema della fortuna, il cui imperio sulle vicende umane si fa maggiormente sentire nel periodo ellenistico-romano, quando oramai sono venute meno le certezze che, entro certi limiti, riusciva ad assicurare la società chiusa della polis.
Per Apuleio la salvezza si ottiene restando sul terreno in cui domina la fortuna, nel passaggio, come abbiamo visto, dalla cattiva alla buona sorte, incarnata da Iside e dalla sua provvidenza, ad opera della quale i beni e i mali della vita sono distribuiti non più alla cieca, ma secondo un’esigenza di giustizia.
Chi invece, come fa “Cebete”, si preclude il ricorso al soprannaturale, come potrà conseguire la salvezza? Come abbiamo visto, la risposta si trova in un radicale rovesciamento di posizione: proprio perché la fortuna è invincibile ed affidare alla sua incostanza la felicità sarebbe contraddittoria follia, non resta allora che proclamare che le cose su cui la fortuna ha potere non sono né beni né mali, dovendosi questi termini riservare, per definizione, solamente a quanto dipende da noi.
Così la soluzione del problema sembra non lasciare adito che ad una alternativa: affidarsi ad un potere non umano capace di piegare la fortuna, sia pure entro un ordine rituale, o confidare solamente nelle forze umane e, con una preventiva rinuncia totale, svuotare la vita di ogni contenuto.
Che si tratti del dominio sul mondo o della fuga dal mondo, per gli spiriti religiosi e per i filosofi, quel che conta è lo sguardo sempre puntato al mondo. Entrambi, sia pure mediante soluzioni opposte, finiscono con il negare la realtà della morte; il platonico con il procrastinarne l’ora e con l’ipotizzare un prolungamento nell’aldilà della mondana beatitudine, il cinico con il pretendere che la stessa morte debba cadere nell’ambito delle cose indifferenti. Gli uni e gli altri, nonostante l’opposizione che li divide, non riescono a trascendere la dimensione della carne e ignorano il nesso che stringe la morte al peccato.

 

Note

[1] Apuleio fu scrittore e filosofo medioplatonico del II secolo. Definito da S. Agostino Platonicus Madaurensis, nelle sue opere la dottrina religiosa sull’anima prende il sopravvento su quella ontologica. Essendo la divinità superiore alle Idee, la religione domina la filosofia; da questo il suo rivolgersi ai culti orientali nei quali la tendenza al monoteismo era più forte che non in quelli greci.

[2] L’operetta prende il titolo da un quadro votivo posto in un tempio di Crono e raffigurante tre recinti concentrici che gli uomini devono attraversare rappresentanti il passaggio della nascita, la scelta tra la vita naturale e la vita colta e quella tra la falsa e la vera cultura. Malgrado il colorito religioso che dà alla sua esposizione, “Cebete” si tiene in realtà entro una prospettiva tutta teologica, dai contenuti ellenistici e cinici.

[3] Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea III, 1.

 

 


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