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Frammenti di Parmenide (3)

Frammenti di Parmenide (3)

Ago 09

 

 

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DK 28 B 7

1-2. Plato, Sophista, 237a, cfr. 258d: Questo argomento ha osato porre che il non essente è: non altrimenti infatti il falso potrebbe generarsi. Parmenide il grande invece, o ragazzo, a tutti noi che eravamo ragazzi iniziando dal principio sino al termine testimoniò contro questo, ogni volta argomentando così sia oralmente sia in versi [arkhomenos te kai dia telous touto apemarturato, pezēi te hōde hekastote legōn kai meta metrōn] «ecco, questo non sarà mai domabile», dice, «che siano i non essenti; ma… dualmente ricercando [dizēmenos] distorna l’intùito».

1. Aristoteles, Metaphysica, N 2, 1089a: Parve [edoxe] infatti loro [ai platonici] che tutti gli essenti sarebbero stati uno (l’essente in sé) [pant’ esesthai hen ta onta, auto to on], se non si fosse risolto [lusai] ed insieme non si fosse proceduto contro [homose badieitai] quest’argomento [logōi] di Parmenide: «ecco, questo non… non essenti».

2-7. Sext., VII 111

3-8. Sext., VII 114: E sul finale dichiara ancor più luminosamente questo: non si deve attenersi alle sensazioni ma alla ragione [aisthēsesi prosekhein alla tōi logōi]. «Non», infatti dice, «una consuetudine… perorata». Ma anche costui, come dalle cose dette è evidente, avendo proclamato il ragionamento scientifico canone della verità nell’insieme degli essenti, s’astenne dall’occuparsi dello statuto delle sensazioni [ton epistēmikon logon kanona tēs en tois ousin alētheias anagoreusas apēste tēs tōn aistēseōn epistaseōs].

ou gar mēpote touto damēi: einai mē eonta;
alla su tēsd’ aph’odou dizēsios eirge noēma
mēde s’ ethos polupeiron hodon kata tēnde biasthō,
nōman askopon omma te kai ēkhēessan akouēn
kai glōssan, krinai de logōi poludēron elenkhon
ex emethen rēthenta.

Ecco, questo non sarà mai domabile: che siano i non essenti;
ma tu da questa via di duale ricerca distorna l’intùito,
né una consuetudine molto sperimentata per questa via ti forzi
a muovere un non vedente occhio e un rimbombante orecchio
e la lingua, giudica invece logicamente la molto combattuta prova
da parte mia perorata.

Diels-Kranz 28 B 8

1-52. Simpl. Phys. 144, 29: Questo qui è il contenuto degli argomenti posteriori al toglimento del non essente [ta meta tēn tou mē ontos anairesis]: «un solo… ascoltando».

1-14. Simpl. Phys. 78, 5: Procede: «un solo… molti assai» e dà [paradidōsi] poi i segni distintivi dell’essente in senso assoluto [ta tou kuriōs ontos sēmeia]: «che ingenerato… impedimenti». Predicando dunque queste determinazioni dell’essente in senso assoluto dimostra in modo chiaro [tauta dē peri tou kuriōs ontos legōn enargēs apodeiknusin] che questo essente è ingenerato: ed infatti non deriva né dall’essente [oute gar ex ontos] ‒ infatti non preesistette altro essente [proüpērkhe allo on] ‒ né dal non essente ‒ il non essente infatti neppure è [oude gar esti to mē on]. E perché [dia ti] dunque si sarebbe generato allora, ma non anche prima o dopo [tote, alla mē kai proteron ē husteron egeneto]? Ma neppure dall’essente sotto un aspetto e non essente sotto un altro aspetto, conforme al divenire di quel ch’è generato [ek tou pēi men ontos pēi de mē ontos, hüs to genēton ginetai]: infatti non potrebbe preesistere al semplicemente essente [an tou haplōs ontos proüparkhoi] l’essente sotto un aspetto e non essente sotto un altro aspetto, ma s’è costituito dopo di esso [met’ auto huphestēke].

3-4. Clem. Strom. V 113 (II 402, 8 Stählin)

38. Plato Theaet. 180d

42. Simpl. Phys. 147, 13: Se per davvero uno è «insieme il tutto», c’è anche «limite estremo».

43-45. Plato Soph. 244e: Ora, se è intero [holon], come anche Parmenide argomenta «da ogni parte… quinci o quindi», essendo, ecco, di tal sorta, l’essente ha mezzo ed estremi [toiouton ge on to on meson te kai eskhata ekhei].

43. Simpl. Phys. 143, 4

44. Aristoteles, Physica, Γ 6, 207a: Si deve credere che Parmenide abbia detto [eirēkenai] meglio [beltion] di Melisso: costui, infatti, professa che l’intero è illimitato [to aperiron holon phēsi], mentre quello che l’intero ha un limite [to holon peperanthai] «dal mezzo equivalente dappertutto».

50-68. Simpl. Phys. 38, 28: Avendo completato [sumplērōsas] il discorso sull’intelligibile [ton peri tou noētou logon], Parmenide procede così: «in questo… superi».

50-59. Simpl. Phys. 30, 13: Parmenide, essendo passato [metelthōn] dagl’intelligibili ai sensibili [apo tōn noētōn epi ta aisthēta] oppure dalla verità [apo alētheias], com’egli professa, all’opinione [epi doxan], nei versi nei quali dice «in questo… ascoltando» anch’egli pose quali principi elementari dei generati la prima antitesi [tōn genētōn arkhas kai autos stoikheiōdeis men tēn prōtēn antithesin etheto], che chiama [kalei] luce ed oscurità [skotos] <o> fuoco e terra o fitto [puknon] e raro [araion] od identico [tauton] ed altro [heteron], argomentando successivamente ai versi sopra citati: «forme… e pesante».

52. Simpl. Phys. 57, 28

53-59. Simpl. Phys. 179, 31: Ccostui nei versi relativi all’opinione rende principi il caldo ed il freddo [pros doxan thermon kai psukhron arkhas poiei]: li appella [prosagoreuei] fuoco e terra e luce e notte oppure oscurità: dice infatti dopo i versi intorno alla verità: «forme… e pesanti».

monos eti muthos hodoio
leipetai hōs estin; tautēi d’ epi sēmat’ easi
polla mal’, hōs agenēton eon kai anōlethron estin,
esti gar oulomeles te kai atremes ēd’ ateleston:
oude pot’ ēn oud’ estai, epei nun estin homou pan,
hen, sunekhes: tina gar gennan dizēseai autou?
pēi pothen auxēthen? oud’ ek mē eontos eassō
phasthai s’ oude noein: oude gar phaton oude noēton
estin hopōs ouk esti. ti d’ an min khreos ōrsen
husteron ē prosthen, tou mēdenos arxamenon, phun?
houtōs ē pampan pelenai khreōn estin ē oukhi.
oude pot’ ek tou eontos ephēsei pistios iskhus
gignesthai ti par’ auto; tou heineken oute genesthai
out’ ollusthai anēke Dikē khalassasa pedēisin,
all’ ekhei; hē de krisis peri toutōn en tōnd’ esti:
estin ē ouk estin; kekritai d’ oun, hōsper anankē,
tēn men ean anoēton anōnumon (ou gar alēthēs
estin hodos), tēn d’ hōste pelein kai etētumon einai.
pōs d’ an epeita peloi to eon? pōs d’ an ke genoito?
ei gar egent’, ouk est(i), oud’ ei pote melloi esesthai.
tōs genesis men apesbestai kai apustos olethros.
oude diaireton estin, epei pan estin homoion;
oude ti tēi mallon, to ken eirgoi min sunekhesthai,
oude ti kheiroteron, pan d’ empleon estin eontos.
tōi xunekhes pan estin: eon gar eonti pelazei.
autar akinēton megalōn en peirasi desmōn
estin anarkhon apauston, epei genesis kai olethros
tēle mal’ eplakhthēsan, apōse de pistis alēthēs.
tauton t’ en tautōi te menon kath’eauto te keitai
khoutōs empedon authi menei: kraterē gar Anankē
peiratos en desmoisin ekhei, to min amphis eergei,
houneken ouk ateleutēton to eon themis einai:
esti gar ouk epideues; mē eon d’ an pantōs edeito.
tauton d’ esti noein te kai houneken esti noēma.
ou gar aneu tou eontos, en hōi pephatismenon estin,
heurēseis to noein: ouden gar <ē> estin ē estai,
allo parex tou eontos, epei to ge Moir’ epedēsen
oulon akinēton t’ emenai; tōi pant’ onom(a) estai,
hossa brotoi katethento pepoithotes einai alēthē,
gignesthai te kai ollusthai, einai te kai oukhi,
kai topon allassein dia te khroa phanon ameibein.
autar epei peiras pumaton, tetelesmenon esti
pantothen, eukuklou sphairēs enalinkion onkōi,
messothen isopales pantēi: to gar oute ti meizon
oute ti baioteron pelenai khreon esti tēi ē tēi.
oute gar ouk eon esti, to ken pauoi min hikneisthai
eis homon, out’ eon estin hopōs eiē ken eontos
tēi mallon tēi d’ hēsson, epei pan estin asulon:
hoi gar pantothen ison, homōs en peirasi kurei.
en tōi soi pauō piston logon ēde noēma
amphis alētheiēs; doxas d’ apo toude broteias
manthane kosmon emōn epeōn apatēlon akouōn.
morphas gar katethento duo gnōmas onomazein:
tōn mian ou khreōn estin ‒ en hōi peplanēmenoi eisin ‒
tantia d’ ekrinonto demas kai sēmat’ ethento
khōris ap’ allēlōn, tēi men phlogos aitherion pur,
ēpion on, meg’ [araion] elaphon, heōutōi pantose tōuton,
tōi d’ heterōi mē tōuton; atar kakeino kat’ auto
tantia nukt’ adaē, pukinon demas embrithes te.
ton soi egō diakosmon eoikota panta phatizō,
hōs ou mē pote tis se brotōn gnōmē parelassēi.

Dunque, ancora il solo discorso della via
che è è stato lasciato da dire; su di essa dunque ci sono segni,
molti assai: che ingenerato è l’essente e incorruttibile,
è infatti intero nelle sue membra e intrepido e pure senza mai termine:
né una volta era, né sarà, poiché adesso è insieme tutto quanto,
uno, continuo: infatti quale generazione dualmente cercherai di esso?
Come, donde sarebbe aumentato? Dal non essente neppure ti permetterò
di esprimerlo né d’intuirlo: infatti non è favellabile né intuibile
che non è. Dunque, quale necessità lo avrebbe mai orientato
dopo o prima, dal niente principiando, a nascere?
Così, è necessario che esista o del tutto o nient’affatto.
Né mai dall’essente ammetterà il vigore di certezza
che si generi qualcosa accanto ad esso; in considerazione di questo né di generarsi
né di corrompersi permise Giustizia allentando gli impedimenti,
ma tiene; dunque il giudizio intorno a questi percorsi è in questi enunciati:
è o non è; s’è giudicato, ordunque, com’è per necessità,
che l’una va lasciata, inintuibile, innominabile (infatti non
è via verace), e che l’altra invece esiste ed è autenticamente reale.
Come dunque potrebbe esistere in seguito l’essente? Come dunque potrebbe mai essersi generato?
Se infatti s’è generato, non è, né se in tempo futuro sarà.
In questo modo la generazione si spegne ed è inconcepibile la corruzione.
Né è divisibile, poiché è tutto uguale;
né c’è qualcosa di più da qualche parte, il quale possa stornarlo dall’esser continuo,
né qualcosa di meno, dunque è tutto pieno d’essente.
Per questo è tutto continuo: l’essente infatti aderisce all’essente.
Ma ancora: immobile, nei limiti di lacci magni
è senza principio senza fine, poiché generazione e corruzione
molto lungi furon respinte, le scacciò dunque certezza verace.
E identico e nell’identico rimanendo e per se stesso giace
e così infisso lì identico rimane: gagliarda infatti Necessità
lo tiene nei lacci del limite, il qual in un ambito lo serra,
giacché è legge che l’essente non sia interminabile:
è infatti non manchevole: il non essente, invece, di tutto mancherebbe.
Identico, dunque, è intuire e ciò in funzione di cui v’è intùito.
Infatti senza l’essente, in cui è espresso,
non troverai l’intuire: null’altro infatti <o> è o sarà
all’esterno dell’essente, poiché Moira, ecco, lo vincolò
a essere intero ed immobile; per questo saranno un nome tutte
quante le cose che i mortali posero, persuasi che fossero vere,
generarsi e corrompersi, essere e non essere affatto,
e luogo cambiare e colore luminoso mutare.
Ancora: poiché v’è limite estremo, è determinato
da ogni parte, comparabile a massa di ben circolare sfera,
dal mezzo egualmente in pressione dappertutto: questo infatti né in qualcosa maggiore
né in qualcosa minore è necessario che risulti quinci o quindi.
Né, infatti, v’è un non essente il quale possa fermarlo nel giungere
all’omogeneo, né è possibile che un essente sia dell’essente
quinci maggiore, quindi invece minore, poiché è tutto inviolabile:
a sé, infatti, da ogni parte pari, in modo uguale in limiti s’imbatte.
In questo ti fermo il discorso certo e pure l’intùito
nell’ambito della verità; dunque, da questo punto le opinioni mortali
apprendi, l’ordine seducente delle mie parole ascoltando.
Infatti si fecero delle nozioni per nominare due forme,
delle quali è necessario che neanche una sia – in ciò sono erranti –,
le discriminarono, dunque, giudicandole opposte in struttura e fecero segni
separando l’una dall’altra, quinci l’etereo fuoco* della fiamma,
che è mite, molto [rado] leggero, identico a se stesso per ogni dove,
all’altro, invece, non identico, ma posero anche quello per sé
in opposizione: notte invisibile, fitta struttura e pesante.
Questo ordinamento verosimile del cosmo io tutto ti espongo,
cosicché mai alcuna conoscenza dei mortali ti superi.

 

* Simplicio (Phys. 31 3 ss.) riporta uno scolio ai versi 56-59 in cui si attribuisce a Parmenide una nota in prosa inserita successivamente: «E dunque fra i versi è inserita anche una nota in prosa come dello stesso Parmenide, di questo tenore: “in questo [epi tōide] c’è il raro ed il caldo e la luce ed il molle [malthakon] ed il leggero [kouphon]; invece con [epi] il fitto si nomina [tōi puknōi ōnomastai] il freddo e la tenebra [to zophos] ed il duro [sklēron] ed il grave [baru]: questi infatti si discriminarono ciascuno nel modo di ciascuno [apekrithē hekaterōs hekatera]”».

 

Articolo seguente: Frammenti di Parmenide (4)

 

 


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