Diogene Laerzio su Menedemo (quarta parte: II, 139-144)
Diogene Laerzio su Menedemo (quarta parte: II, 139-144)
Nov 06Brano precedente: Diogene Laerzio su Menedemo (terza parte: II, 134-138)
139 Dunque, organizzava i simposi in questo modo: prima pranzava con due o tre persone sino a un’ora tarda del giorno; quindi qualcuno chiamava la gente pervenuta; anche costoro avevano già pasteggiato; sicché, chiunque arrivasse un po’ presto camminando domandava ai servi che uscivano che cosa c’era di preparato e come si era messi col tempo: se s’offriva verdura o pesce salato, se ne andavano; se invece s’offriva la carne, entravano. D’estate, dunque, i letti erano occupati da una stuoia di giunchi; d’inverno, invece, da un vello di pecora; si doveva portare con sé il proprio cuscino. La coppa che circolava, poi, non presentava una capacità maggiore di un quartino; al dessert c’erano lupini o fave; di quando in quando, comunque, tra la frutta di stagione, v’era anche una pera o una melagrana, o piselli, o, per Giove, fichi secchi. 140 Tutte queste notizie son offerte da Licofrone nel dramma satiresco che intitolò Menedemo, dramma che poetò appunto come elogio del filosofo stesso; ecco, questi sono alcuni versi di tale dramma:
Come esito d’un breve pasto, il piccolo calice
costoro si porgono in circolo con misura, e, al dessert,
il ragionamento intelligente, per quanti amano ascoltare.
Ebbene, dapprima era condannato in quanto «cane» e «chiacchierone»: udiva gli Eretriaci subissarlo con queste diffamazioni; dopo, comunque, fu ammirato, cosicché prese anche in mano il comando della polis. Presiedette legazioni, dunque, tanto presso Tolemeo quanti presso Lisimaco, ricevendo onori ovunque, tra l’altro anche presso Demetrio. Così, dacché la polis avrebbe dovuto pagare duecento talenti in un anno a quest’ultimo, provocò la sottrazione di cinquanta; diffamato presso costui giacché avrebbe inteso consegnare la polis a Tolemeo, si discolpò mediante un’epistola apologetica il cui inizio è: «Menedemo al re Demetrio, salve. 141 Odo che ti han fatto presente, per quanto concerne me…». Secondo una lettura, dunque, l’avrebbe diffamato qualcuno tra i suoi antagonisti politici, un tale Eschilo. Sembra, inoltre, che abbia presieduto nel modo più degno una legazione presso Demetrio a supporto di Oropo, come rammenta anche Eufanto nelle Storie. Gli voleva bene, dunque, anche Antigono, che faceva mostra di esser suo discepolo. E quando sconfisse i barbari presso Lisimachia, Menedemo scrisse per celebrarlo un decreto semplice e non adulatorio, il cui inizio è: 142 «Gli strateghi e i consiglieri hanno detto: giacché il re Antigono, dopo aver ottenuto la vittoria in battaglia sui barbari, ritorna nella sua terra natale e tutto quel che pratica denota giudizio, è sembrata cosa degna alla Boulé ed al popolo…».
Sospettato, dunque, per queste discriminanti e per le altre manifestazioni d’amicizia di voler consegnare proditoriamente la polis a quest’ultimo, sospinto da queste diffamazioni di Aristodemo se ne andò; così trascorse un po’ di tempo ad Oropo, nel santuario di Anfiarao; dacché in esso furono sottratte delle coppe d’oro – questa fama è documentata da Ermippo – per decreto comune dei Beoti gli fu ordinato di andarsene. Allora, sfumatagli la speranza, dopo essersi introdotto in patria pervenendovi da latitante ed aver preso con sé tanto la moglie quanto le figlie, recatosi presso Antigono abbandonò la vita per questo sfumare della speranza.
143 Eraclide, da parte sua, antagonista delle diffamazioni di questo genere, vuole che egli, del tutto all’opposto, dopo esser divenuto consigliere all’assemblea degli Eretriaci, più volte abbia liberato la patria dai tiranni, ottenendo l’agevolazione della cosa da parte di Demetrio: non avrebbe dunque consegnato proditoriamente la polis ad Antigono, tutt’altro: sarebbe incappato in una diffamazione falsa; perseguendo la costante vicinanza ad Antigono, dunque, voleva anche liberare la patria; ma, dacché quest’ultimo non cedeva, per lo sfumare della speranza soffrì sette giorni d’inedia e s’alienò dalla vita. Anche Antigono di Caristo racconta storie simili a questa. Soltanto la sua guerra contro Perseo rimase profondamente feroce, per questa ragione: a quest’ultimo, quando Antigono avrebbe voluto ricostituire la democrazia distrutta per gli Eretriaci per compiacere Menedemo, sembrò bene impedirlo. 144 Per questo una volta, durante una bevuta, Menedemo, dopo averlo confutato negli argomenti, allegò altri biasimi, tra cui è celebrabile questo: «Questi è bensì un filosofo degno; come uomo, d’altra parte, tanto tra i presenti quanto tra i nascituri, è il peggiore».
Trapassò dunque, secondo Eraclide, mentre occorreva l’ottantaquattresimo anno della sua vita. Anche a costui è indirizzato un nostro componimento, di questo tenore:
Ho sentito narrare, o Menedemo, la tua morte, come tua sponte ti sei spento
in sette giorni per assoluta inedia.
Così compisti un atto degno d’un eretriaco, altroché, ma non d’un uomo,
siccome l’inerzia psichica, qual guida, s’occupò di menarti.
E così questi furono i socratici e quanti furono formati da loro; occorre, dunque, por mente a Platone, l’iniziatore dell’Accademia, e a coloro che da lui derivarono, tutti quanti gl’ingegni divenuti eletti.
La traduzione è condotta sul testo dell’edizione critica di Marcovich:
Diogenes Laertius, Vitae philosophorum, ed. D. Marcovich, Lipsiae 1999.