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Diogene Laerzio su Menedemo (prima parte: II, 125-130)

Diogene Laerzio su Menedemo (prima parte: II, 125-130)

Ott 16

Brano precedente: Diogene Laerzio su Critone, Glaucone, Simmia, Cebete (II, 121-125)


Costui era tra gli adepti istruiti da Fedone. Era figlio di Clistene, uno di coloro che venivano chiamati Teopropidi, il quale era uomo bennato, ma architetto e povero; alcuni, poi, dichiarano che costui era anche scenografo e che Menedemo si formò in ambedue le professioni; per questo, quando quest’ultimo scrisse una qualche proposta di decreto, qualcuno, un discepolo di Alessino, lo attaccò con la provocazione che un sofo non è atto a dipingere una scenografia né gli è congeniale proporre un decreto. Menedemo, dunque, inviato dai cittadini di Eretria come guardia a sostegno di Mefara, salì all’Accademia per incontrare Platone e, conquistatone, lasciò la spedizione.

126 Dunque, giacché Asclepiade di Fliunte lo attirò a sé, pervenne a Megara presso Stilpone, le cui dissertazioni entrambi ascoltarono; e, avendo navigato da lì in direzione di Elide, incontrarono Anchipilo e Mosco, formati da Fedone. Ebbene, sino a costoro, come è stato verbalizzato nel capitolo pertinente a Fedone, i congregati in questa scuola furono chiamati eliaci; da allora in poi furono chiamati eretriaci dalla patria di colui di cui stiamo parlando.

Sembra, dunque, che Menedemo fosse davvero maestoso; per questo Cratete, riferendosi a lui in parodia, dice:

Asclepiade di Fliunte e il toro d’Eretria.

Timone, da parte sua, lo diffama in questo modo:

Agitata la folla, aggrottando le sopracciglia, imbecille spaccone.

127 Era uno che incuteva tanta soggezione che Euriloco di Casandrea, davanti a un invito da parte di Antigono esteso a Cleippide, un ragazzo di Cizico, rifiutò, siccome temeva che la voce arrivasse alle orecchie di Menedemo. Era, infatti, un autentico censore e articolava anche le sue osservazioni con parresia. Ecco un esempio: quando un giovane si comportò troppo provocantemente, non disse alcunché; tuttavia, preso uno scirpo, disegnò in terra uno schema rappresentante uno che veniva abusato; insomma, mentre tutti guardavano, il ragazzo, dacché aveva compreso d’esser oggetto d’insulto, se ne andò. In un’altra occasione, quando Ierocle, delegato preposto al Pireo, passeggiava assieme a lui nel santuario di Anfiarao e lo riempiva di rievocazioni della presa di Eretria, non disse null’altro oltre a chiedergli in quale posto Antigono gliel’infilava.

120 Biasimò così, dunque, un marito adultero perché si vantava: «Ignori che non solo il cavolo ha un buon succo, ma anche i ravanelli?». Di nuovo, biasimò così un giovane perché gridava forte: «Aspetta, da’ un’occhiata, ché non ti sia sfuggito di avere qualcosa rimastoti nel didietro». Dacché Antigono gli chiedeva consigli su cosa dire quando fosse arrivato alla celebrazione d’una festa, lo esortò ad annunciare solo questo: «C’è il figlio del re» e poi tacere, omettendo altre dichiarazioni. Inoltre, a un imprudente che gli riferiva qualcosa stoltamente chiese se avesse un agro; dacché l’altro affermò d’esser pieno di possedimenti, riprese: «Portati là allora, ed è meglio che t’occupi di quelli, perché non ti avvenga di trovarteli consumati e di perdere un idiota che s’ingegna di stupir per sagacia». Proseguendo, a chi voleva sapere se il virtuoso dovesse sposarsi, domandò: «Io ti sembro virtuoso?», e, dacché quello dichiarò che lo era, disse: «Ebbene, io son sposato». 129 Provocando, dunque, uno che professava che vi è una pluralità di beni, gli fece queste domande: quanti ne occorressero di numero e se professava che questa pluralità fosse maggiore di cento. Non riuscendo, dunque, a contenere la sfarzosità di uno di coloro che lo invitavano a banchetto, in occasione di uno di questi inviti non proferì verbo; nonostante permanesse nel suo mutismo, lo ammonì comunque mangiando una singola oliva.

Dunque, per effetto di questa disposizione alla parresia, mancò poco che rischiasse di riceverne nocumento a Cipro presso Nicocreonte, insieme al suo amico Asclepiade. Infatti, mentre il re celebrava una festa dall’occorrenza mensile a cui aveva invitato anche costoro, così come gli altri filosofi, Menedemo provocò dichiarando che, se l’assemblea di uomini di tal genere era una bella attività, la festa avrebbe dovuto rigenerarsi ogni giorno; 130 se invece non lo era, anche in quell’occasione era superflua. E, giacché il tiranno, davanti a questa provocazione, replicò col dire che rimaneva a sua disposizione soltanto quel giorno per ascoltare i filosofi, insistette con molta più acidità, predicando, mentre si offriva il sacrificio, che bisogna in ogni occasione ascoltare i filosofi, sino al punto che, se un qualche auleta non li avesse congedati, sarebbero andati incontro alla rovina. Dopo tutto questo, mentre nella nave erano in balia di una tempesta, secondo la fama Asclepiade avrebbe dichiarato che, se da una parte l’arte musicale dell’auleta aveva provocato la loro salvezza, dall’altra la parresia di Menedemo aveva arrecato loro detrimento.

La traduzione è condotta sul testo dell’edizione critica di Marcovich:
Diogenes Laertius, Vitae philosophorum, ed. D. Marcovich, Lipsiae 1999.

Brano seguente: Diogene Laerzio su Menedemo (seconda parte: II, 130-134)


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