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Diogene Laerzio su Epimenide (I, 109-115)

Diogene Laerzio su Epimenide (I, 109-115)

Gen 16

Brano precedente: Diogene Laerzio su Misone (I, 106-108)

109 Epimenide, conformemente alla fama presentata da Teopompo e copiosi altri, aveva come padre Festio, mentre altri dicono Dosiade, ed altri ancora Agesarco. Cretese, quanto alla gente, da Cnosso, però alternativo a vedersi, con quella chioma gettata all’indietro. Costui, quando venne inviato dal padre nell’agro per occuparsi d’una pecora, deviò dal percorso verso mezzogiorno e successivamente s’addormentò in qualche antro continuando l’oblio per cinquantasette anni. Rinvenuto in stato di veglia, dunque, dopo questi anni, proseguì la ricerca della pecora, convinto d’aver dormito per poco. Giacché, dunque, non la trovava, pervenne nell’agro, e, siccome tutto in generale era cambiato ed era stato preso in possesso da un altro, tornò di nuovo in città portando con sé i dubbi. In quella villa, dunque, quando entrò nella sua casa, s’imbatté nei presenti che gli domandavano chi fosse, sinché, trovato il fratello minore, che allora comunque era già vecchio, apprese totalmente la verità per opera di lui. Riconosciuto, dunque, dagli Elleni, fu supposto essere pregiatissimo per gli dei.

110 In questo tempo, dunque, quando erano contagiati da una pestilenza, la Pizia comandò agli Ateniesi di purificare la polis; costoro dunque inviano una nave, ed anche Nicia di Nicerato, a Creta, a chiamare Epimenide. Così questi, arrivato nella quarantaseiesima Olimpiade, purificò la polis di costoro e posò la peste in questo modo. Prima prese delle pecore, così nere come bianche, quindi le spinse sul colle di Ares. E quinci permise loro d’ire dove volessero, esigendo da coloro che procedevano insieme a queste che ove ciascuna di esse si reclinasse, venisse sacrificata al dio propinquo; e con questo sarebbe languito il male. Onde eziandio adesso sono suscettibili di rinvenimento, collocati lungo i demi degli Ateniesi, altari anonimi, monumento dell’espiazione consolatrice ingenerata in quel momento. Altri invece dicono che costei avrebbe giudicato causa provocatrice della peste il sacrilegio di Cilone, dunque avrebbe indicato questa maniera d’alienarsi da esso; e per questo sarebbero stati uccisi due giovani, Cratino e Ctesibio, così da dissolvere la sofferenza. 111 Gl’Ateniesi dunque votarono un atto con cui davano a costui un talento e una nave in modo da ricondurlo in Creta. Questi, dunque, non prese questo argento; concretizzò comunque l’amicizia e l’alleanza tra Cnossii ed Ateniesi.

Così, ottenuto di ritornare a casa, già in un tempo ravvicinato, non di più, andò dall’altra parte, come professa Flegone nel componimento Sui longevi, avendo vissuto centocinquantasette anni, o, come prediligono i Cretesi, avendo vissuto trecento anni meno uno, ovvero, come Senofane di Colofone professa d’aver udito, sino a centocinquantaquattro anni di vecchiaia.

Poetò, dunque, Nascita di Cureti e Coribanti e Teogonia, in cinquemila versi, così come Costruzione della nave Argo e dunque Viaggio in mare fatto da Giasone verso i Colchi, in seimilacinquecento versi. 112 Scrisse, dunque, eziandio in prosa i componimenti Sui sacrifici e Perlustrazione della legge costituzionale in Creta, così come Su Minosse e Radamanto, in quattromila versi. Dunque, presiedette eziandio, presso gli Ateniesi, alla fondazione del santuario delle Dee Auguste, come professa Lobone l’argivo nella perlustrazione Sui poeti. Dunque, vien privilegiato anche qual primo purificatore di vichi e agri, e presidente alla fondazione di templi. Vi sono, dunque, alcuni che dicono che costui non dormì, tutt’altro: per qualche tempo avrebbe bruciato i ponti esercitando il negozio del taglio e della raccolta di radici.

Si riferisce, dunque, anche un’epistola di questi contattante il nomoteta Solone, contenente la costituzione politica che Minosse dispose per i Cretesi. Peraltro Demetrio di Magnesia, nelle Perlustrazioni concernenti poeti e scrittori omonimi, si sperimenta nel discreditare questa epistola giacché troppo nuova e altresì scritta in lingua non già cretese bensì attica, ed eziandio in questa lingua attica nuova. Io dunque ho trovato anche un’altra epistola che ha questo tenore:

«Epimenide a Solone.

113 Coraggio, o sodale. Se, ecco, Pisistrato si fosse fatto oppressore quando gli Ateniesi erano ancora teti e non avevano buone leggi, avrebbe il potere sempiternamente, una volta messi sotto i piedi i concittadini schiavizzati; adesso, invece, ha asservito uomini non cattivi; costoro, memori dei moniti di Solone, s’addolorano con vergogna e non si rassegneranno a esser tiranneggiati. D’altronde anche se Pisistrato conservasse per sé la polis, non mi aspetto che quest’autocrazia possa arrivare sino ai suoi figli: è un meccanismo difficile, ecco, che uomini che son stati liberi, in ordinamenti perfetti, continuino a essere servi. Tu, dunque, non vagare altrimenti, ma vieni in Creta, conduciti da me. In questo luogo, ecco, non ti sarà diro il monarca; se, all’opposto, nel corso del vagare, i suoi amici dovessero imbattersi in te, temo che patirai qualcosa di diro».

114 E costui scrisse proprio in questo modo. Afferma, dunque, Demetrio che alcuni riferiscono questa storia: avrebbe preso dalle Ninfe qualcosa di commestibile e l’avrebbe custodito in uno zoccolo di bue; col prenderne poco per volta, dunque, giammai sarebbe stato svuotato da escrezione alcuna, e non sarebbe mai stato adocchiato mangiare. Menziona costui anche Timeo nel libro secondo. Alcuni, dunque, raccontano questa leggenda: che i Cretesi sacrificano a costui giacché dio; professano infatti anche che era ingegnosissimo nell’arte prognostica. Così, vedendo Munichia presso gli Ateniesi, ecco che profetò che questi ignoravano di quanti mali questo luogo sarebbe stato causa per loro; se l’avessero osservato forse anche con i denti avrebbero distrutto questo porto; proferiva queste lezioni con tanti anni di priorità. Si dice, dunque, che costui dicesse eziandio d’esser precedentemente nato come Eaco, e che per i Lacedemoni abbia evocato profeticamente la presa che avrebbero subita dagli Arcadi; avrebbe preteso, dunque, d’esser vissuto di nuovo più volte.

115 Teopompo, dunque, nei Casi miracolosi, professa che, mentre costui costruiva il santuario delle Ninfe, eruppe una voce uranica: «Epimenide, non delle Ninfe, bensì di Giove»; ai Cretesi, dunque, evocò profeticamente la sconfitta che sarebbe stata subita dai Lacedemoni ad opera degli Arcadi, come peraltro è stato già prima verbalizzato; ordunque, vennero finanche presi presso Orcomeno.

Costui sarebbe invecchiato, dunque, in un tot di giorni corrispondente alla quantità d’anni percorsi dormendo; anche questo difatti professa Teopompo. Mironiano, dunque, nei Simili, professa questo, che, da giovane, i Cretesi chiamavano costui Curete; e i Lacedemoni custodiscono il corpo di costui presso di sé, conformemente a qualche oracolo, fama leggibile in Sosibio il lacone.

Son nati, dunque, anche altri due Epimenide: il genealogista e, per terzo, colui che ha scritto in dorico su Rodi.

La traduzione è condotta sul testo dell’edizione critica di Marcovich:
Diogenes Laertius, Vitae philosophorum, ed. D. Marcovich, Lipsiae 1999.

Brano seguente: Diogene Laerzio su Ferecide (I, 116-122)


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