Diogene Laerzio su Crantore (IV, 24-27)
Diogene Laerzio su Crantore (IV, 24-27)
Feb 27
Brano precedente: Diogene Laerzio su Cratete accademico (IV, 21-23)
24 Crantore di Soli, nonostante fosse ammirato nella sua patria, salpò da questa in direzione di Atene e udì le dissertazioni di Senocrate qual scolaro insieme con Polemone. Costui lasciò commentari; in tutto tre miriadi di stichi; alcuni, in qualche misura, li presumono di Arcesilao. Supportano, dunque, questa fama: quando fu chiesto a costui come fosse stato soggiogato da Polemone, avrebbe risposto questo: per averlo udito emettere una voce né troppo acuta né troppo grave. Costui, quando s’ammalò, si ritirò nel santuario d’Asclepio; così si mise a passeggiare per il santuario; le persone, dunque, da ogni dove si presentavano a lui, pensando non che fosse lì per una malattia, bensì che volesse costituire una scuola in questa stessa istituzione. Tra costoro v’era eziandio Arcesilao, che desiderava esser presentato a Polemone da costui, che peraltro amava Arcesilao, come leggeremo nella parte su quest’ultimo. 25 D’altronde, a dispetto della successiva guarigione, continuò ancora a udire Polemone; questo occasionò anche moltissima ammirazione. È detto, dunque, anche che lasciò ad Arcesilao i beni, rappresentati da dodici talenti. E, quando gli fu chiesto da quest’ultimo di pronunciarsi su dove volesse esser sepolto, evocò:
Nei colli d’una terra cara esser sepolti è bello.
Si dice, dunque, che abbia scritto anche una collezione di poesie e che, in patria, contrassegnatele, le abbia poste nell’edificio sacro ad Atena. E Teeteto, il poeta, favella in questo modo qui pertinentemente a costui:
Piaceva agli uomini, questi che di più piaceva alle Muse,
Crantore, e non procedette nella vecchiaia.
Terra, tu dunque, da morto, accogli quest’uomo santo:
costui, ecco sì, anche là sotto vive in benessere.
26 Crantore, dunque, ammirava meglio di tutti così Omero come Euripide, dicendo che è arduo scrivere in forma tragica e insieme tale da suscitare simpatia. E proferiva questo stico estratto dal Bellerofonte:
Ohimè! – Perché dunque «ohimè»? Occorrimenti propri dei mortali abbiam patito.
Si dice dunque che eziandio questi versi del poeta Antagora, indirizzati a Eros, fossero riferiti come versi di Crantore:
In dubbio mi è l’animo, giacché la tua gente ha reputazione ambigua,
se t’invocherò, Eros, come il primo degli dei, genia eterna,
il più antico di tutti quanti i figli che Erebo e la basilissa
Notte generarono, nei flussi pelagici sotto il vasto Oceano,
27 ovvero, ecco, ti dirò figlio di Cipride perspicace, ovvero ti dirò figlio di Gaia,
o dei Venti; per questi umani, errando, pensi eguali mali
e beni; così il tuo fisico ha duplice natura.
Era dunque bravo anche nel comporre nomi: ecco, su un qualche attore tragico commentò che aveva una voce «non sgrassata dalla scure e colma di corteccia»; così gli stichi d’un qualche poeta erano colmi di tarme; e le tesi di Teofrasto erano scritte con l’ostro. Di costui, dunque, s’ammira moltissimo questo libro: Percorso sul lutto. Concludendo, si congedò dalla vita prima di Polemone e di Cratete, sconfitto dal morbo dell’idropisia. Vi sono anche nostri versi indirizzati a costui:
Travolse anche te, Crantore, il peggiore dei morbi,
e per questo ti calasti nel nero abisso di Plutone.
Anche tu, ecco, adesso sei laggiù, dunque vedove delle tue lezioni
restano l’Accademia e Soli, patria tua.
La traduzione è condotta sul testo dell’edizione critica di Marcovich:
Diogenes Laertius, Vitae philosophorum, ed. D. Marcovich, Lipsiae 1999.