Argomentazioni sull’ontologia del piacere
Argomentazioni sull’ontologia del piacere
Ago 08
Oggi pubblichiamo il primo articolo di Cesare Lombardi, medico cardiologo e studioso autodidatta di filosofia. Cesare inizia la sua collaborazione con un articolo sulla discussione del concetto di piacere nell’opera Dilemmi di Ryle. Ringraziandolo per il contributo, gli diamo il benvenuto tra i collaboratori del blog.
Nell’opera più importante di Gilbert Ryle, The Concept of Mind [1] compare la definizione diventata celebre: «lo spettro nella macchina» con la quale egli intendeva riferirsi al dualismo cartesiano con l’intento di criticarlo. La sua intenzione era di tipo comportamentistico: Ryle intendeva trasferire il mentale al fisico [2] credendo possibile riformulare i nostri discorsi su stati e processi mentali in modo tale da eliminare ogni riferimento alla vita interna, che egli sostituiva con asserzioni disposizionali sul comportamento manifesto delle persone [3].
Ryle riuscì solo in parte nel suo intento. È dubbio che egli sostenesse la tesi forte della traducibilità di ogni discorso sulla mente in un discorso sul comportamento. Sosteneva piuttosto la tesi più debole secondo la quale è possibile classificare in termini comportamentistici gran parte di ciò che viene classificato discorso sulla mente. Quando un soggetto soddisfa un predicato mentale non vuol dire che abbia un processo interno ma che sia disposto a manifestare un certo comportamento [4]. Questa tesi ammette l’esistenza di processi interni ma ne minimizza l’importanza [5]. Quando emetto un enunciato dotato di significato è possibile ma non necessario che lo abbia già esaminato “nella testa” [6]. Non esistono atti propriamente “volontari”. Per le emozioni è sì necessario un sentimento interno ma la sua importanza sarebbe minore rispetto al comportamento a cui sono associate [7]. Pensare può consistere solo nel fatto che la persona si comporta in un certo modo [8].
Poiché i filosofi hanno sempre manifestato la tendenza ad assumere che tutto ciò che viene comunemente inteso come opera della mente consista o per lo meno implichi essenzialmente un processo, l’opera di Ryle rappresenta un risultato di valore [9]. Il fatto che Ryle non riesca a fondare la sua pretesa più forte non significa ritornare alla pretesa cartesiana [10]. Ryle estende la sua concessione del dualismo mente-corpo all’analisi della sensazione, ma la sua concezione della percezione e della sensazione è infelice, come egli stesso ammette nella prefazione di The Concept of Mind, affermazione che fu poi parzialmente corretta successivamente [11].
Nel suo libro Dilemmi, che raccoglie lezioni tenute al Magdalen College di Oxford, Ryle esordisce sostenendo che, naturalmente, prima si impara a parlare utilizzando i verbi della percezione, cioè relativi alle cose che percepiamo; in un secondo tempo siamo in grado di parlare della percezione e, infine, della fallacia della percezione. Il rischio è lo scetticismo, che egli tuttavia rifiuta [12]. Si possono fare errori per difetto dei sensi, ammette Ryle, o per altre insufficienze ma questo non convalida la tesi scettica [13]. Il fatto che non possiamo percepire ultrasuoni non prova che non possiamo percepire nulla [14].
Ryle afferma che si suppone che vedere e udire siano conseguenze di stimoli, solo che non si è ancora scoperta la correlazione di tali sintomi alle percezioni che essi provocherebbero [15]; anzi il programma di misurare un processo sarebbe senza speranza di successo [16]. Il vedere non è la fase conclusiva di un processo né è un processo [17]. La domanda se e come io abbia visto un albero non è di per sé una domanda su un processo; la risposta non è fisiologica ma psicologica [18]. Ciò che vediamo non può essere costituito da oggetti o eventi a noi esterni. Tutte le visioni, i suoni, gli odori sono – almeno metaforicamente – interni a noi. Quando il neurochirurgo vede nel nostro cranio, non vede ciò che è il nostro cranio, ma qualche cosa che esiste o avviene nel nostro cranio [19]. Vedere e udire sono simili al piacere [20]; a differenza del dolore e del solletico il vedere e il piacere non sono fasi finali di un processo [21].
Ryle enuncia due tipi di dilemmi: quelli in cui esistono soluzioni opposte dello stesso problema e quelli che sono, in realtà, due abbozzi dello stesso problema entrambi logicamente inoppugnabili ma uno di essi è errato mentre l’altro non lo è. Spesso sorgono contrasti tra teorie diverse o, più generalmente, tra diversi modi di pensare che non sono, in realtà, soluzioni opposte di uno stesso problema, bensì piuttosto soluzioni o abbozzi di soluzioni di problemi differenti le quali, ciò nondimeno, appaiono tra loro inconciliabili.
Il contrasto tra la visione del fisiologo e quella del senso comune è un esempio di dilemma del secondo tipo. Non si tratta di un conflitto tra teorie ma tra teoria ed evidenza; non tra una teoria del senso comune e una teoria fondata sull’evidenza ma di opinioni intorno a uno stesso soggetto [22]. Si tratta di diverse storie su uno stesso soggetto, in un caso intorno alla condotta umana, nell’altro intorno alla percezione, ma non sono soluzioni contrastanti di uno stesso problema [23]. I pensatori si trovano in disaccordo perché credono che le loro risposte siano contraddittorie. La verità è che parlano senza sapere che stanno parlando di cose diverse [24].
Ryle esamina alcuni esempi di conflitti che non sono competizioni fra teorie, in cui quindi la soluzione del problema non può venire dall’aumento della convalida dell’una o dell’altra posizione. Non si tratta perciò di problemi interni alle teorie; non si tratta di problemi biologici o fisici ma di problemi filosofici: dilemmi. Ryle evidenzia la insorgenza di un dilemma quando ci si accinge ad analizzare il piacere. Una delle fonti di questo dilemma consiste nella supposizione spontanea che il piacere sia un processo di uno stato corporeo o psicologico [25]. Ryle denuncia la difficoltà che si incontra se si vuol sistemare il concetto di piacere in una certa classe e che spesso il concetto viene sistemato, senza successo, in una categoria già nota. La nozione di piacere risulta chiara al soggetto che lo prova se è relativa alle cose che producono piacere; anzi, in questo caso, il soggetto negherebbe che l’oggetto della domanda sia il piacere a meno che la domanda stessa non ponga questioni generali, filosofiche, circa le preferenze. Comunque, in ogni caso, è possibile che sorgano problemi circa la verità di questi asserti [26].
Oggetto della critica di Ryle è la teoria dinamica della condotta: una siffatta rappresentazione dei piaceri come effetto di atti dove il desiderio di questi piaceri si pone come la causa di questi atti [27]. Questa teoria enunciava che il piacere dovesse essere, in qualche modo, causa di certe cose, cioè di azioni umane, ed essere effetto di altre cose, talché potesse esservi una regolarità causale secondo il modello: «ogni volta che un piacere allora “così, così” e ogni volta che “così, così” allora un piacere». La goffaggine stessa di una siffatta enunciazione sarebbe il segno di qualche pasticcio logico [28]. Ryle nega che il piacere possa essere un antecedente e un susseguente di altri accadimenti: il piacere non sarebbe un processo, non sarebbe una sensazione [29].
L’obiezione principale alla teoria dinamica della condotta consisterebbe nel fatto che, contrariamente a quanto avviene per il dolore, non saremmo in grado di riferire al medico dove proviamo piacere e se si tratta di un piacere intermittente o stabile [30]. L’obiezione sembra curiosa. Per quel che riguarda i piaceri fisici più semplici si è in grado, di solito, di dimostrare facilmente che il piacere ha una causa, un proprio carattere, una durata: in sostanza che è una sensazione. Più complicato sembra il quantizzare piaceri indotti da emozioni dell’intelligenza e delle credenze, ma anche di essi sembra ormai possibile ricostruire un processo deterministico. La scoperta dei peptidi oppioidi endogeni ad opera di Hughes nel 1975 [31], endorfine con proprietà euforizzanti ed eudemonizzanti, e la dimostrazione della loro produzione nel corso di situazioni emozionali [32] permette di comprendere il meccanismo di produzione del piacere indotto da emozioni.
Sembrerebbe che queste recenti acquisizioni possano permettere di concludere che anche il piacere indotto da emozioni si produca secondo un processo, ma non credo che Ryle acconsentirebbe. Come abbiamo già visto, Ryle accomuna il piacere alla percezione e nega che questa consista in un processo, cioè sia un fenomeno [33]. Posso guardare un albero, sostiene Ryle, non vedere un albero, perché non è possibile né al fisiologo ne allo psicologo e neppure a me stesso cogliermi nell’atto di guardare un albero [34]. Mi pare che Ryle sostenga che il vedere (e quindi anche il piacere) a differenza del guardare non sia percepito come un processo. Ciò non dimostra necessariamente che non possa essere un processo, ma Ryle vuol dire ancora altro: il problema è semantico. Il vedere non è un processo perché il verbo vedere non esprime durata, quindi il programma di misurare il processo del vedere è un programma senza speranza, perché l’idea che questo processo ci sia è il prodotto di un errore grammaticale [35]. Ryle forse intende che, poiché il vedere non è percepito come un processo, il significato del verbo corrispondente non potrebbe essere che l’espressione dello stesso concetto. Se al verbo ‘vedere’ si attribuisse un significato diverso, se cioè connotasse un processo, e si pensasse di poter dimostrare l’esistenza di un processo con i metodi della fisiologia, ciò sarebbe impossibile perché la ricerca si baserebbe sull’idea errata che il vedere sia un processo.
Se l’interpretazione è corretta, il ragionamento è debole. Il fatto che il vedere e il piacere non siano percepiti come processi non implica che il fisiologo, ipotizzando – erroneamente secondo Ryle – che un processo invece esista, non possa arrivare a dimostrare che il vedere (e il piacere) siano processi. Le obiezioni alla concezione di Ryle della percezione e del piacere sono dettate dalla neuroendocrinologia e dalla logica. Se fossero corrette ciò dimostrerebbe che l’indagine sull’ontologia del piacere non inciampa in errori categoriali causa di dilemmi. Le conclusioni riguardanti il piacere non sembrano tuttavia cogenti per gli altri dilemmi presi in esame da Ryle e illustrati nel suo libro.
Note
[1] G. Ryle, Lo spirito come comportamento, Einaudi, Torino, 1955.
[2] A. J. Ayer, La filosofia del ‘900, Laterza, 1983, pag 164.
[3] Ivi, pag. 165.
[4] Ivi, pag. 166.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, pag. 167.
[8] Ibidem.
[9] Ivi, pag. 166.
[10] Ivi, pag. 167.
[11] J. Tanney, Gilbert Ryle, «Stanford Encyclopedia of Philosophy», 2015.
[12] G. Ryle, Dilemmi, Ubaldini editore, Roma, 1968, pag 95.
[13] Ivi, pag. 98.
[14] Ivi, pag. 99.
[15] Ivi, pag. 103.
[16] Ivi, pag. 105.
[17] Ivi, pag. 103.
[18] Ivi, pag. 102.
[19] Ivi, pag. 111.
[20] Ivi, pag. 103.
[21] Ibidem.
[22] Ivi, pag. 9.
[23] Ivi, pag. 11.
[24] Ivi, pag. 17.
[25] Ivi, pag. 111.
[26] Ivi, pag. 59.
[27] Ivi, pag. 61.
[28] Ivi, pag. 64.
[29] Ibidem.
[30] Ivi, pag. 62.
[31] J. Hughes, Isolation of an Endogenous Compound from the Brain Similar to Morphine, «Brain Research», Elsevier, 1975.
[32] G. Gessa e G. Mistica, Endorfine, Phytagora Press, 1987.
[33] G. Ryle, Dilemmi, op. cit., pag. 103.
[34] Ibidem.
[35] Ivi, pag. 105.
Bibliografia
- A. J. Ayer, La filosofia del ‘900, Laterza, 1983, pag 164.
- G. Gessa e G. Mistica, Endorfine, Phytagora Press, 1987.
- J. Hughes, Isolation of an Endogenous Compound from the Brain Similar to Morphine, «Brain Research», Elsevier, 1975.
- G. Ryle, Dilemmi, Ubaldini editore, Roma, 1968, pag 95.
- G. Ryle, Lo spirito come comportamento, Einaudi, Torino, 1955.
- J. Tanney, Gilbert Ryle, «Stanford Encyclopedia of Philosophy», 2015.