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La teoria semantica di Stevenson

La teoria semantica di Stevenson

Dic 01

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L’emotivismo è la dottrina secondo cui gli enunciati morali non descrivono proprietà del mondo, ma semplici stati emotivi del parlante. Secondo tale visione (quanto meno nella sua versione più radicale) non esistono “fatti morali” di alcun tipo cui un discorso possa riferirsi: pertanto, esprimere una convinzione morale non sarebbe nulla più che esternare un gusto personale.

Una delle più importanti e rigorose formalizzazioni, particolarmente attenta al piano linguistico, di questa teoria è dovuta a Charlie Leslie Stevenson. Prima di andarla a descrivere, è però necessario qualche cenno al contesto storico.

Anzitutto, l’emotivismo ha dei forti rapporti con il positivismo. Questa corrente di pensiero, come è universalmente noto, si propone di accettare solo le proposizioni verificabili: vi sarebbe molto da osservare su quest’ultimo concetto, cioè su quello di verificabilità, ma vorrei soffermarmi su un punto specifico, cioè l’importanza attribuita all’estensione di un termine, vale a dire al suo referente. In genere, l’accusa rivolta all’etica era che, non essendoci estensione per i suoi termini, essi erano flatus vocis, privi di significato. Questa accusa assumeva particolare forza perché la semantica dell’epoca (pur se con notevoli eccezioni) era ancora fortemente orientata a uno studio del segno in rapporto al referente.

In secondo luogo dobbiamo osservare la vicinanza, sotto alcuni aspetti, degli emotivisti con gli intuizionisti (coloro che ritengono possibile la conoscenza di ciò che è bene tramite intuizioni). Entrambi, infatti, condividono la loro avversione al naturalismo, ovvero la pretesa di definire il concetto di bene, scomponendolo analiticamente e sostengono la Legge di Hume, cioè l’impossibilità di derivare prescrizioni da enunciati puramente descrittivi.

Ora, sul piano linguistico l’operazione di Stevenson consiste sostanzialmente nello studio dei segni sulla base del comportamento che stimolano nel destinatario [1]. L’attenzione dunque, non è più rivolta agli oggetti denotati dal segno, ma alle credenze, o attitudini che vengono prodotte nel ricevente. Le credenze hanno un significato descrittivo, e riguardano processi mentali come il credere, il supporre o il presumere: esse indicano quelle caratteristiche dell’oggetto per cui diciamo che esso è vero o falso. Le attitudini, invece, generano sentimenti di approvazione o disapprovazione verso un oggetto. Quest’ultima definizione è importante, perché ci ricorda come l’autore non intenda parlare di qualsiasi emozione o stato d’animo, ma di disposizioni verso un oggetto in termini di preferenze.

Un altro punto trattato approfonditamente dall’autore sono i conflitti morali. Secondo la sua teoria, la componente descrittiva, le credenze, non possono determinare in maniera assoluta le valutazioni. In altri termini, può darsi il caso che due agenti condividano le stesse credenze, ma siano in disaccordo sul loro valore. Pensiamo a due persone che discutano della pena di morte, concordando su cosa essa sia e su quali sarebbero le conseguenze della sua introduzione, ma trovandosi in disaccordo sul fatto che vada effettivamente introdotta o meno.

Il punto forse più interessante di questa tesi riguarda l’argomentazione. Un conflitto di attitudini, infatti, non potrà essere risolto in termini cognitivi, razionali (adducendo ragioni), non essendoci disaccordo fattuale. Si dovrà invece, secondo Stevenson, ricorrere al metodo persuasivo, cioè alla retorica. Naturalmente questa posizione pone il problema di distinguere il moralista dal semplice propagandista, problema del quale Stevenson stesso si mostra consapevole.

Nota

[1] Alcuni hanno osservato, forse non del tutto a torto, come non si dia una precisa distinzione fra stimolo e segno, ovvero uno stimolo che stia in luogo di qualcos’altro. Appunto che peraltro si può probabilmente estendere a quella che è, a mia conoscenza, la più importante classificazione di quel periodo sulla base del comportamento stimolato nel destinatario, vale a dire quella di Morris, della quale Eco osserva: “La preoccupazione behavoristica di Morris […] lo porta a confondere pericolosamente il segno con lo stimolo” (cfr. Umberto Eco, Segno, Milano: ISEDI, 1973).


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