Temi e protagonisti della filosofia

Sulla non-definibilità del bene. Intuizionismo mooreiano, emotivismo ayeriano ed aporia relativista

Sulla non-definibilità del bene. Intuizionismo mooreiano, emotivismo ayeriano ed aporia relativista

Nov 03

 

 

La morale è la debolezza del cervello.
Arthur Rimbaud

Predicare la morale è difficile, motivarla è impossibile.
Ludwig Wittgenstein

Sommario

«Anything is what it is/ and not another thingP»: è con queste parole di Bishop Bulter, filosofo e teologo inglese del XVIII secolo, che G. E. Moore apre i suoi Principia Ethica [1] del 1903. Sin da questa citazione iniziale si fa chiara una delle maggiori preoccupazioni che animano il lavoro del filosofo, ovvero la possibilità di definire qualcosa: ma quando questo definiendum, come nel caso dei Principia, riguarda un oggetto misterioso come il bene, diventa di primaria importanza interrogarsi filosoficamente sulla stessa possibilità dell’azione definitoria; e questo sarà quello che si cercherà di fare anche nella presente trattazione, riportando e confrontando due diverse, ma altrettanto possibili, risposte alla questione dell’analisi del bene: saranno compagni di viaggio due filosofi vissuti per molti anni contemporaneamente, entrambi britannici e facenti parte di quella tradizione, oggi maggioritaria in filosofia, chiamata analitica; i loro nomi sono G. E. Moore e A. J. Ayer.

Introduzione

È opinione comune che l’etica sia la disciplina che si occupa della condotta degli esseri umani: questa idea è suggerita in primis dall’uso linguistico quotidiano che noi facciamo di alcuni termini, come “buono”, “cattivo”, “giusto”, “ingiusto”, ecc., e che consideriamo, proprio in virtù di una consuetudine, termini etici tout court. Così, generalmente, pensiamo di appellarci all’etica ogni volta che pronunciamo o pensiamo enunciati del tipo “è giusto questo e quello”, oppure “è bene fare così e così”; tuttavia circoscrivere l’etica a questo insieme di usi è riduttivo: tema di questo saggio sarà un esame del pensiero di alcuni autori che hanno contribuito in maniera fondamentale alla spiegazione di che cosa l’etica sia, se analizzata in modo filosofico, e che hanno avuto il grande merito di mostrare che la ricerca, in tale campo, oltrepassa la più convenuta dimensione normativa. G. E. Moore viene considerato, infatti, l’iniziatore della cosiddetta ricerca metaetica: il filosofo britannico apre, con i suoi Principia Ethica, la strada ad una riflessione filosofica che nel Novecento, e fino ai nostri giorni, ha originato un’infinità di posizioni speculative in campo morale. La metaetica, definita dal filosofo italiano Gianluca Verrucci come «l’attività filosofico-riflessiva che si esercita intorno alle principali categorie normative del discorso morale» [2], sembra, dunque, essere un ambito antecedente e necessario a qualsiasi discorso morale di tipo prescrittivo: prima di dire che un comportamento è più buono rispetto ad un altro, è necessario capire cosa voglia dire “buono”; e proprio questo fa colui che approccia la ricerca etica in modo filosofico, ovvero tenta di definire quei concetti che stanno alla base delle enunciazioni morali che tutti largamente usiamo.
Procederemo, dapprima, con una presentazione dei due modi differenti che Moore e Ayer hanno di concepire la definizione filosofica, in quanto questa divergenza d’approccio giustifica le diverse soluzioni proposte dai due al problema della chiarificazione del “bene” (§1); in secondo luogo passeremo all’analisi delle conseguenze che la posizione intuizionista di Moore nei Principia Ethica e quella emotivista di Ayer in Linguaggio, verità e logica [3] hanno sul definire i concetti morali (§2). Infine (§3) si tenterà di sostenere la tesi secondo cui sia intuizionismo mooreiano che emotivismo ayeriano, entrambi su un piano metaetico, generano posizioni “relativiste” quando tentano di far funzionare le loro definizioni in campo etico normativo: si staglierà, dunque, una spiazzante (ed irrisolvibile) aporia su quale comportamento adottare.

1) Due modi di concepire la definizione filosofica a confronto

Come si è ricordato sin dalle battute iniziali, quello della definizione è un problema molto sentito dai due autori considerati; e non è dunque un caso che Moore se ne occupi nel primo capitolo dei Principia Ethica, in fase di introduzione al lavoro da sviluppare nelle pagine successive: l’autore afferma infatti che, se vogliamo arrivare a dire qualcosa sulle singole condotte morali, dobbiamo innanzitutto rivolgere la nostra attenzione a definire cosa siano le condotte e cosa siano i criteri con cui le valutiamo, come ad esempio il “bene”:

Senza dubbio appartiene all’etica il problema di che cosa sia una condotta buona; ma, ponendosi questo problema, l’etica può impostarlo sulla sua prima base solo se è preparata a dirci che cos’è bene e che cos’è la condotta. […] Perciò io cercherò di evitarlo (l’errore di limitare la ricerca etica all’aspetto normativo) esaminando prima di tutto che cosa è il “bene” in generale; nella speranza che si potrà arrivare ad una qualche certezza su questo, sarà poi molto più facile chiarire il problema della condotta buona. [4]

Dunque, continua Moore nel §5, «come buono vada definito, è il problema più fondamentale di tutta l’etica», e la mancata comprensione di questa esigenza va a discapito dell’intera ricerca morale: infatti, il filosofo, nel paragrafo successivo, non tarda a fare una precisazione sulla natura particolare, e ben diversa da quella dizionaristica, della definizione filosofica:

Una definizione, infatti, spesso non è altro che l’espressione del significato di una parola mediante altre parole. Ma non è questo il genere di definizione che io cerco. Una tale definizione non può essere di importanza decisiva in alcuna scienza, salvo che nella lessicografia. [5]

Quello che il filosofo britannico insegue con la sua idea di definizione è l’oggetto a cui, a torto o ragione, si ritiene che la parola generalmente rimandi; quel che vuole scoprire è la natura di quell’oggetto.
Come vedremo nel paragrafo successivo, il tentativo di definizione di “bene” fatto da Moore risulta particolarmente curioso e controverso; tuttavia, prima di occuparci di questo, è bene mostrare un’alternativa alla visione mooreiana della definizione, attraverso l’analisi di alcuni passi del terzo capitolo di Linguaggio, verità e logica di Ayer: se per Moore il problema è definire “cos’è bene”, per Ayer, invece, il compito della definizione è quello di mostrare cosa facciamo quando impieghiamo “bene” nel linguaggio [6]. Sulla scorta di quanto detto da Moore, anche Ayer afferma che

quando asseriamo che la filosofia fornisce definizioni, non se ne deve concludere che sia funzione della filosofia compilare un dizionario nel senso comune dell’espressione. Le definizioni che la filosofia è tenuta a fornire appartengono infatti a un genere diverso da quanto ci aspettiamo di trovare nei dizionari. [7]

Mentre il dizionario definisce per sinonimi, la filosofia deve farlo in modo del tutto peculiare, ovvero attraverso l’uso: Ayer sostiene che ciò avvenga quando

definiamo il simbolo nell’uso, non quando lo diciamo sinonimo di qualche altro simbolo, ma quando (appunto) mostriamo come gli enunciati dove figura in modo significativo possono tradursi in enunciati che non contengono né il definiendum né alcuno dei suoi sinonimi. [8]

Il materiale concettuale di partenza per questa visone è da rintracciarsi nella teoria delle descrizioni definite [9] di Bertrand Russell: essa sostiene, per l’appunto, che ogni enunciato contenente una espressione simbolica di questa forma si può tradurre in un enunciato che non contiene nessuna espressione siffatta, ma contiene soltanto il sotto-enunciato asserente che un oggetto e uno solo possiede quella certa proprietà [10]. In altre parole una descrizione di tipo filosofico deve dire ciò che è espresso da enunciati contenenti determinate locuzioni descrittive, senza impiegarne nessuna, dissipando così, secondo Ayer, le confusioni insorgenti dalla nostra imperfetta comprensione di certi tipi di enunciati del nostro linguaggio (ad esempio enunciati etici).
È importante osservare come due modi diversi di concepire la definizione mettano in luce altrettante aspettative nei confronti della stessa: mentre Moore con il suo tentativo definitorio insegue un oggetto, o un’idea, insomma un qualcosa (il “bene”) che presumibilmente avrà specifiche proprietà, Ayer imbriglia la definizione in un campo molto più ristretto e preciso, ovvero quello della logica, bollando come extra-filosofica ogni altra questione di tipo empirico. Ma quali sono le soluzioni proposte dai due filosofi? Entrambi sentono forte l’esigenza di definire, secondo i propri canoni filosofici, il “bene”, come abbiamo visto; ma come vi fanno fronte?

2) I concetti morali tra intuizionismo ed emotivismo

Le risposte di Moore e Ayer presentano un fondamentale punto in comune: entrambi ritengono, dopo aver chiarito approfonditamente cosa voglia dire definire filosoficamente, che il “bene” sia indefinibile e non-analizzabile; tuttavia le due posizioni, come vedremo, divergono di gran lunga sulla spiegazione di questa impossibilità di analisi di un qualcosa così comune e pregnante nella vita dell’uomo come è, senza dubbio, il “bene”. La definizione di “bene”, tanto ansiosamente ricercata da Moore, viene esposta a partire dal primo capitolo dei Principia quando l’autore afferma:

Ciò che sostengo è che “buono” è una nozione semplice, proprio come è una nozione semplice “giallo”; e come non c’è mezzo alcuno per spiegare a qualcuno che non lo sappia cosa è il giallo, così non c’è modo di spiegare a qualcuno che cosa sia il bene. [11]

Moore prosegue, e qualche riga oltre ci spiega che definizioni come quelle che cercava, ovvero in grado di dar ragione della natura dell’oggetto denotato da una parola, «sono possibili soltanto quando l’oggetto o la nozione in questione sia qualcosa di complesso», e riporta come esempio esplicativo quello di un cavallo: esso è definibile in virtù delle sue numerose proprietà; ma il “giallo” e il “bene”, come si è mostrato, non sono nozioni complesse, sono invece nozioni di quel genere semplice (senza componenti) a partire dalle quali si compongono le definizioni e di fronte a cui si arresta la nostra possibilità di definire ulteriormente. Un problema che Moore rileva nella letteratura filosofica di stampo etico è il tentativo diffuso di identificare l’indefinibile “bene” con qualche proprietà, e a tal proposito, nel §14, afferma che «se partiamo con la convinzione che una definizione di buono può essere trovata, partiamo con la convinzione che buono può significare null’altro che qualche proprietà delle cose», il che implica sempre che “buono” sia necessariamente questo e quest’altro, senza accorgersi che della bontà di questo e quest’altro si può sempre chiedere se sia buono pensarla in tale modo. Moore, col suo celebre argomento della domanda aperta, esposto precisamente nei §§12-13 dei Principia, intende mostrare l’errore commesso da quelle dottrine, da lui chiamate “naturalistiche”, che sostengono la possibilità che le proprietà morali, come “bene”, siano concettualmente identiche, o riducibili, a proprietà naturali. Secondo l’argomento mooreiano della domanda aperta, la fallacia naturalistica si presenta ogni qual volta tendiamo ad identificare il “bene” con una proprietà naturale, ad esempio “bene è ciò che desideriamo”, in quanto si può sempre domandare, in modo intelligibile, se una qualsiasi proprietà identificata col “bene” sia a sua volta buona: è chiaro che se tale proprietà, ad esempio “essere desiderato”, fosse davvero il “bene”, non genererebbe tale domanda. Come ricorda Verrucci, per apprezzare la portata di tale argomento, e di tutto l’opera mooreiana, bisogna tener presente che per il filosofo «non si tratta di definire il bene ricomponendo nell’ordine corretto il complesso delle proprietà che lo compongono, quanto, semmai, di riconoscere che l’impresa è per sua natura destinata allo scacco».
Dunque «il bene è il bene», e non è nulla che si possa appiattire su una qualche proprietà naturale: ma qual è la possibilità per l’uomo di arrivare a questo non-definibile oggetto? Moore nel §7 del capitolo primo dei Principia ci dice che oggetti come “bene” e “giallo” «sono semplicemente qualcosa che si pensa o si percepisce e la loro natura non può esser fatta conoscere per mezzo di alcune definizioni a chi non sia in grado di pensarli e percepirli», il che fa pendere la posizione filosofica dell’autore dalla parte dell’intuizionismo; tuttavia, come Moore stesso ci ricorda nell’introduzione, il suo è un tipo di intuizionismo peculiare:

l’intuizionista in senso proprio si caratterizza per il fatto che sostiene che le proposizioni appartenenti alla seconda classe – quelle che asseriscono che una certa azione è giusta o che è un dovere – non sono suscettibili di prova mediante un’indagine sui risultati di tali azioni. Io, invece, sono altrettanto deciso nel sostenere che le proposizioni di questo genere non sono “intuizioni” quanto lo sono nel dire che sono intuizioni le proposizioni della mia prima classe (ovvero quelle che potremmo chiamare “metaetiche”, come gli enunciati sul bene stesso). [12]

Per poter comprendere la non-definizione del “bene” proposta da Ayer, dobbiamo tener ben presente il presupposto verificazionista dal quale muove la riflessione del filosofo: come afferma Verrucci, la tesi verificazionista sostiene che «le uniche proposizioni dotate di genuino e positivo significato sono quelle suscettibili di prova empirica» [13]; dunque le proposizioni metaetiche saranno per Ayer di qualche interesse a patto che sostengano la prova del riscontro empirico. Il capitolo sesto di Linguaggio, verità e logica è un tentativo da parte di Ayer di promuovere un atteggiamento verificazionista anche in campo etico (idea a cui gli ambienti accademici erano piuttosto contrari); in questa prospettiva, i giudizi morali avrebbero un contenuto che rintraccia fatti o concetti realmente esistenti; viceversa, l’opinione del filosofo è che la morale è riducibile al dominio non-morale dei fatti empirici:

ci disporremo a mostrare che nella misura in cui sono significative, le affermazioni di valore sono normali affermazioni ‘scientifiche’; e, nella misura in cui non risultano scientifiche, non sono significative nel senso letterale della parola ma sono semplicemente espressioni di emozioni, che non possono né essere vere né false. [14]

Ayer presenta una distinzione molto importante in comunanza con Moore, ovvero quella tra indagine sulla condotta morale e ricerca etica filosofica: mentre la prima è compito del sociologo e dello psicologo, la seconda è dovere del filosofo, e va perseguita evitando l’uso di espressioni etiche.
Ma perché Ayer non può accettare l’argomento della domanda aperta di Moore? Quest’ultimo aveva proposto un argomento che sembrerebbe implicare una sorta di intuizionismo, come abbiamo visto, secondo il quale i giudizi morali, o meglio il loro significato normativo, è conoscibile mediante intuizione. Questa caratteristica rende i giudizi di Moore proposizioni sintetiche a priori che sfuggono alla prova empirica, contravvenendo così all’assunto fondamentale del verificazionismo, tanto importante per Ayer [15]. Così, non rimane che battere una nuova via, denominata dalla critica “emotivismo”: Ayer reputa che i concetti morali non sono analizzabili perché non sono concetti; essi sono soltanto pseudo-concetti che non aggiungono nulla al contenuto fattuale delle proposizioni. Dire “hai agito male picchiando tua moglie” non aggiunge nulla in più al dire “hai picchiato tua moglie”: dichiarando che questa azione è male non si fa nessun’altra affermazione in proposito; si viene solo a mostrare la propria disapprovazione morale del fatto. È un po’ come dire “tu hai picchiato tua moglie” con un tono di voce scandalizzato. Ayer sta sostenendo che i concetti morali si limitano ad esprimere dei sentimenti e delle reazioni emotive: come nota Verrucci

l’emotivismo dissolve, per così dire dall’interno, le pretese dell’argomento della domanda aperta. “Buono”, non possedendo significato empirico, si svuoterebbe completamente giungendo a denotare soltanto la propensione emotiva del soggetto. [16]

In definitiva, questo breve confronto tra la posizione intuizionista e quella emotivista ha messo in luce che mentre il sostenitore della prima si limita, in un certo senso, a denunciare l’impossibilità di definire i concetti morali, Ayer fa di più e ci dice che ciò non è possibile in virtù del fatto che le nozioni morali come “bene” sono pseudo-concetti, e che il compito della metaetica è proprio quello di etichettare come non-analizzabili gli stessi concetti etici.
Ma, come spesso accade in filosofia, la chiarificazione di un problema apre immediatamente spazio ad una nuova domanda, e così: una volta stabilito il rapporto intrinseco tra livello metaetico e piano normativo, come influenzano rispettivamente emotivismo e intuizionismo la condotta umana? Come vedremo nel successivo paragrafo, la questione presenta più di una difficoltà.

3) Relativismo etico: come salvarsi?

Le riflessioni filosofiche di Moore e Ayer prendono le mosse da un problema condiviso, ovvero la non-definibilità del “bene”: come abbiamo visto, le soluzioni fornite dai due autori sono differenti e sono etichettabili attraverso l’ascrizione alle correnti intuizionista ed emotivista rispettivamente. La presente trattazione vorrebbe riflettere sul fatto che entrambe le proposte filosofiche conducono ad un’aporia quando tentano di passare dal piano metaetico (ovvero di definizione dei concetti morali) a quello normativo (cioè alla determinazione delle condotte), e precisamente cadrebbero in un relativismo morale davvero difficile da districare. Per quanto filosoficamente consistenti ed accettabili, le conclusioni di Moore e Ayer sono, secondo il senso comune, molto spiazzanti: gli uomini sono gettati in un perenne panorama di eticità e la loro vita è continuamente bersagliata da giudizi morali, per quanto diversi e mutevoli. Pensare, come vorrebbe Ayer, che interrogarsi sulla bontà o meno di un’azione sia una cosa inutile, o reputare, alla maniera di Moore, che ciascuno di noi possa intuire come “buono” qualsiasi cosa diversa, sono scenari che generano instabilità: in certo senso, queste teorie etiche autorizzano a qualsiasi tipo di condotta e alla sparizione di qualsiasi ordine comportamentale. L’etica sembra risolversi in un fatto prospettico e le dispute morali, per tutta risposta, si svuotano di ogni consistenza.
Eugenio Lecaldano in Le analisi del linguaggio morale mette in luce come, in realtà, più soggetto all’aporia relativista sia l’emotivismo, rispetto all’intuizionismo, in quanto afferma che Moore «è pur sempre convinto che esistano valori comuni a tutti gli uomini» [17]; tuttavia si potrebbe obiettare a tale precisazione che il fatto che Moore non definisca cosa siano questi valori comuni non mette, nei fatti, al riparo da un rischioso relativismo: dire che ci sono valori comuni, senza dire nulla su di essi, non permette di fare inferenze pratico-morali dotate di valore positivo. Inoltre si può ulteriormente argomentare dicendo che il modo di intuire tali concetti condivisi è del tutto misterioso e potrebbe variare da persona a persona.
Questa tesi non vuole descrivere negativamente un approccio relativista ai problemi, ma mettere piuttosto in luce come, particolarmente in campo etico, non poter avere certezze di nessun tipo sia estremamente problematico. Trovatisi casualmente, come due viandanti sconosciuti qualsiasi, dinnanzi ad un medesimo bivio (il problema dell’analisi del “bene”), entrambi, Moore e Ayer, decidono di imboccare la via opposta a quella dell’altro (intuizionismo ed emotivismo); tuttavia, dopo un lungo camminare che ha portato a scoprire luoghi diversi (risultati teoretici di diversa natura dei filosofi), i due hanno finiti per rincontrarsi in un medesimo punto, come se le due strade imboccate all’inizio fossero soltanto due vie per raggiungere uno stesso luogo (l’aporia relativista della condotta).

Conclusione

In conclusione è opportuno ricordare come i Principia Ethica di Moore, nei primi anni del Novecento, abbiano segnato un modo nuovo di fare filosofia etica, al quale tutti quelli venuti dopo, Ayer compreso, hanno guardato almeno come punto di partenza per la propria proposta filosofica: seppur discusso e traballante, l’argomento della domanda aperta rappresenta il primo tentativo analitico di affrontare la questione dei concetti morali; il che rende chiaro come il nostro debito filosofico con il suo autore sia, prima che teoretico, spiccatamente metodologico.
Per quanto concerne la trattazione, va detto che il percorso seguito ha inteso prendere in analisi una piccola parte del contenuto dell’opera mooreiana, e si è proposto, alla luce di un confronto con posizioni di un autore, Ayer, appartenuto al cosiddetto periodo d’oro della metaetica [18], di avanzare una tesi sul rapporto vigente tra etica filosofica e condotta morale. Nello specifico, mentre il §1 ha voluto far chiarezza su come in filosofia si possa concepire in modi diversi la definizione, e su come questi differenti impieghi siano importanti in etica, il §2 ha invece tentato di mostrare le differenze che la posizione intuizionista di Moore e quella emotivista di Ayer mettono in campo nel non-definire i concetti morali. Infine il §3 ha provato ad esplicare una tesi, quella dell’aporia relativista, che a chi scrive era sembrata particolarmente significativa nel mostrare quanto l’argomento etico nella sua complessità possa essere controverso e privo, forse più di ogni altro campo filosofico, di posizioni ferme. I lavori dei nostri due autori, così diversi, sono però ugualmente “potenti”, al punto da avere entrambi la capacità di mettere in crisi qualsiasi sistema valoriale in uso. Certamente per chi cerca risposte a cui far seguire una ferma condotta queste proposte filosofiche sembreranno trita cervelli che condannano l’uomo all’eterna indecisione, ma per chi crede che il sale della filosofia sia l’apertura costante delle questioni essi saranno un’ammaliante conferma.

 

NOTE

[1] MOORE, George E., Principia Ethica (1903), trad. it. di G. Vattimo, Milano: Bompiani, 1964.

[2] VERRUCCI, Gianluca, Introduzione alla metaetica, Milano: Franco Angeli, 2014.

[3] AYER, J. Alfred, Language, truth and logic, (1936), tr. it. di Giannantonio De Toni, Linguaggio, verità e logica, Milano: Feltrinelli, 1961.

[4] MOORE, George E., Principia Ethica (1903), trad. it. di G. Vattimo, Milano: Bompiani, 1964, cap. I, §2, p. 45.

[5] MOORE, George E., Principia Ethica (1903), trad. it. di G. Vattimo, Milano: Bompiani, 1964, cap. I, §6, pp. 49-50.

[6] Cfr. VERRUCCI, Gianluca, Introduzione alla metaetica, Milano: Franco Angeli, 2014, p. 39.

[7] AYER, J. Alfred, Language, truth and logic, (1936), tr. it. di Giannantonio De Toni, Linguaggio, verità e logica, Milano: Feltrinelli, 1961, cap III, p. 54.

[8] AYER, J. Alfred, Language, truth and logic, (1936), tr. it. di Giannantonio De Toni, Linguaggio, verità e logica, Milano: Feltrinelli, 1961, cap. III, p. 56.

[9] Per maggiori approfondimenti cfr. Bertrand Russell, On denoting, 1905.

[10] Si consideri l’esempio dell’enunciato “il quadrato rotondo non può esistere”, che secondo la teoria russelliana equivale a “nessuna cosa può essere insieme quadrata e rotonda”.

[11] MOORE, George E., Principia Ethica (1903), trad. it. di G. Vattimo, Milano: Bompiani, 1964, cap. 1, §7, p. 51.

[12] MOORE, George E., Principia Ethica (1903), trad. it. di G. Vattimo, Milano: Bompiani, 1964, Introduzione, p. 38.

[13] Cfr. VERRUCCI, Gianluca, Introduzione alla metaetica, Milano: Franco Angeli, 2014, p. 36.

[14] AYER, J. Alfred, Language, truth and logic, (1936), tr. it. di Giannantonio De Toni, Linguaggio, verità e logica, Milano: Feltrinelli, 1961, cap. VI, p. 128-129.

[15] A tal proposito Ayer è molto chiaro in un passo del cap. VI, p. 135 di Linguaggio, verità e logica, quando afferma che «tenendo presente l’uso da noi fatto del principio per cui la proposizione sintetica ha significato solo se è verificabile, accettare una teoria “assolutistica” (intuizionista) dell’etica comprometterebbe evidentemente tutta la nostra argomentazione principale».

[16] Cfr. VERRUCCI, Gianluca, Introduzione alla metaetica, Milano: Franco Angeli, 2014, p. 44.

[17] LECALDANO, Eugenio, Le analisi del linguaggio morale. “Buono” e “dovere” nella filosofia inglese dal 1903 al 1965, Roma: Edizioni dell’Ateneo, 1970, p. 117.

[18] Gianluca Verrucci nella sua Introduzione alla metaetica ricorda come oggi si accetti di suddividere in tre grandi periodi lo sviluppo generale dell’etico contemporanea: la prima parte (fino agli anni Trenta del secolo scorso) segna l’avvio della riflessione metaetica iniziata da Moore; il secondo periodo (detto “d’oro”) va dagli anni Trenta fino a metà anni Cinquanta e vede l’appropriazione non-cognitivista dell’argomentazione mooreiana; infine si parla di un terzo periodo, quasi di riscoperta e rinascita della metaetica, che va dagli anni Settanta fino ad oggi.

 

BIBLIOGRAFIA DI LAVORO

AYER, J. Alfred, Language, truth and logic, (1936), tr. it. di Giannantonio De Toni, Linguaggio, verità e logica, Milano: Feltrinelli, 1961.

LECALDANO, Eugenio, Le analisi del linguaggio morale. “Buono” e “dovere” nella filosofia inglese dal 1903 al 1965, Roma: Edizioni dell’Ateneo, 1970.

MOORE, George E., Principia Ethica (1903), trad. it. di G. Vattimo, Milano: Bompiani, 1964.

VERRUCCI, Gianluca, Introduzione alla metaetica, Milano: Franco Angeli, 2014.

 

 


Ti è piaciuto il post? Dona a Filosofia Blog!

Cliccando sul pulsante qui sotto puoi donare a Filosofia Blog una piccola cifra, anche solo 2 euro, pagando in modo sicuro e senza commissioni. Così facendo contribuirai a mantenere i costi vivi di Filosofia Blog. Il servizio di donazioni si appoggia sul circuito il più diffuso e sicuro metodo di pagamento online, usato da più di 150 milioni di persone. Per poter effettuare la donazione non è necessario avere un account Paypal, basta avere una qualsiasi carta di credito o Postepay. Grazie!

Leave a Reply