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Selezione naturale della capacità morale e ontogenesi della condotta (3)

Selezione naturale della capacità morale e ontogenesi della condotta (3)

Nov 13

 

 

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3. La facoltà morale

La proposta di Kant è una netta alternativa al modello humiano-darwiniano della capacità morale intesa come frutto di una storia di eventi selettivi biologici, sociali e cognitivi che hanno interessato organismi che sono stati in grado di essere agenti morali grazie alle passioni riflessive selezionate nel corso della storia della specie. Kant rifiuterà di considerare il ruolo delle passioni, della corporeità e degli istinti, che costituirebbero ostacolo alla scelta morale, per concentrarsi sulla necessità e universalità della ragione [13]. Sarà scopo della Ragion pratica dimostrare che l’azione morale è possibile prescindendo dagli elementi storici e di costume che Hume e Darwin pongono al centro della loro concezione della capacità morale. Secondo Kant la Ragione Pratica Pura, essendo indipendente dalla sensibilità, è in grado di determinare, essa sola, la volontà. Nel concetto stesso di moralità del comune intelletto sarebbe contenuta una legge valida per ogni essere ragionevole con necessità assoluta [14] .

Occorre, quindi, mostrare, contro la concezione di Hume, che la ragione da sola, pura, può determinare la volontà. Per fare questo è necessario criticare la ragione pratica per dimostrare che essa, quando è empiricamente condizionata, non possiede la facoltà di determinare la volontà [15].

Secondo Kant da nessuna indagine sulla natura umana è possibile ricavare il principio morale perché tutti gli elementi sensibili sono da ricondurre all’egoismo. La ragione, invece, ci è data dalla natura come «facoltà pratica, cioè tale da dover influenzare la volontà, e la sua vera destinazione può essere solo quella di produrre una volontà buona, non come mezzo per qualche altro scopo, ma come buona in sé» [16].

Lo scopo di Hume era quello di applicare il metodo sperimentale galileiano-newtoniano allo studio della morale in modo empirico. Il punto di vista di Kant, invece, è sempre relativo al soggetto. L’oggettività della morale discende dalla validità della ragione pura: se essa è in grado di determinare la volontà, se quindi può essere pratica, vi saranno leggi pratiche. Solo una facoltà sensibile contrapposta a queste leggi può essere contraria ad esse.

Secondo Darwin e Hume il conflitto tra ragione e passioni lasciava il posto a un processo di correzione riflessiva delle passioni su sé stesse per influenza di interazioni sociali che, grazie alla selezione, avrebbe reso stabili le passioni. Per Kant, invece, la ragione per legiferare deve presupporre solo sé stessa. I suoi dettami devono essere categorici perché rappresentano una azione necessaria per sé stessa. Per Kant l’azione morale è ricondotta a una facoltà in grado di darsi ‘a priori’ i principi dell’azione senza alcun concorso empirico, intrinseca all’individuo, mentre per Hume e Darwin la capacità si esplica nelle relazioni sociali derivate da una lunga sedimentazione di istinti e costumi. La distinzione tra facoltà e capacità sta in questo.

Per Kant ciò che fa le leggi universali è solo la loro forma; ciò che conta non è il contenuto della massima morale ma il suo essere adeguata a una legge universale e necessaria:

Tutti i principi pratici che presuppongono un oggetto della facoltà di desiderare come motivo determinante della volontà sono empirici e non possono dar luogo a leggi pratiche. [17]

Kant non ha ancora dimostrato che esistono leggi pratiche ma solo in che modo, se esistessero, determinerebbero la volontà; ma esse devono esistere: infatti l’imperativo categorico è una proposizione pratica sintetica a priori «che non fa derivare analiticamente il fatto di volere una azione da un altro volere già presupposto […] ma che la connette immediatamente al concetto della volontà di un essere razionale come non contenuta in esso» [18].

Di che tipo sarà la volontà così determinata?: «Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere, nello stesso tempo, come principio di una legislazione universale» [19]. La coscienza di questa legge è, per Kant, un ‘fatto della ragione’. Da ciò deriva, secondo Kant, che possiede il carattere della soprasensibilità; ciascuno avrebbe, da sempre, la conoscenza della legge morale e del suo carattere soprasensibile. Infine, la legge morale ha come condizione l’esigenza di essere liberi, cioè di possedere una facoltà pura-pratica in grado di determinare da sola la volontà. Il problema della moralità e della libertà è il problema del libero arbitrio.

Kant ha dimostrato che la ragione pura può essere pratica, cioè in grado di determinare la volontà esclusivamente grazie ai propri principi. Ma una volontà del genere è una volontà autonoma perché non è l’oggetto che dà la legge alla volontà ma la volontà che dà la legge a sé stessa. La libertà quindi è una particolare forma di causalità, la possibilità di produrre oggetti senza che vi siano cause anteriori di tale produzione:

La volontà è una specie di causalità degli esseri viventi in quanto ragionevoli mentre la libertà è quel carattere di questa causalità per il quale essa può agire indipendentemente da cause esterne che la determinino. [20]

Ma se la libertà consistesse solo in questa indipendenza dagli oggetti, anche gli eventi casuali potrebbero essere considerati esempi di libertà, e nessun soggetto morale può essere considerato responsabile di un evento casuale. La libertà è possibile solo in presenza di una volontà autonoma, ma se soltanto le azioni autonome fossero libere quelle eteronome non potrebbero mai esserlo. Queste non potrebbero essere riconducibili alla responsabilità morale e il libero arbitrio non potrebbe esistere. Kant risolve così il problema: siamo responsabili, oltre che delle azioni compiute in ossequio alla legge morale, anche di quelle dettate da qualche inclinazione sensibile. Ciò può avvenire soltanto se le inclinazioni sono assunte nelle massime del soggetto. Allora soltanto l’intenzione dell’agente è suscettibile di valutazione morale. Si tratta di due maniere diverse di dare a sé stessi la norma: una data dalla ragion pura, l’altra da una inclinazione sensibile [21]. Soltanto assumendo le inclinazioni nella propria massima si può parlare di un atto di libertà. Qualsiasi tipo di movente non può determinare la volontà libera se non in quanto lo si assuma nella propria massima. Soltanto dopo la assunzione l’intenzione dell’agente è valutabile moralmente:

La libertà dell’arbitrio ha il carattere del tutto particolare di non poter essere determinata ad un atto per mezzo di un movente se non in quanto l’uomo abbia assunto questo movente nella sua massima […]. Solo così un movente, qualunque esso sia, può sussistere unitamente alla spontaneità dell’arbitrio (con la libertà) […]. [22]

Questa precisazione, frutto del tardo pensiero Kantiano, illustra bene la possibilità dell’ontogenesi della condotta, che non può prescindere dalla volontà del singolo. Se nella realizzazione della capacità morale il contesto in cui gli istinti sociali sono destinati ad estrinsecarsi può influire in modo determinante sulla possibilità di realizzazione della stessa capacità, l’apporto del volere, invece, è fondamentale nell’ontogenesi della condotta che potrà evolvere quindi in modo diverso nei singoli individui.

Nella psicologia junghiana l’ontogenesi della condotta è rappresentata dal “processo di individuazione”, un processo naturale che è sentito dal soggetto come “lo scopo della vita” e implica potentemente la volontà. Questo processo è diverso da soggetto a soggetto: può evolvere normalmente, rallentare o interrompersi. Jung parla esplicitamente di ”soggetti deformati” in cui l’arresto del processo di individuazione è responsabile di inadeguatezza morale e sociale, personale e collettiva.

Jung afferma che esiste una ”funzione trascendente” che fornisce allo sviluppo individuale «le direttive che la via pretracciata dalle norme collettive non può fornire» [23]. Il concetto è oscuro ma pare indicare che la semplice capacità morale del soggetto e le interazioni sociali rese possibili da tale capacità non siano sufficienti all’individuazione che necessita di una interazione bidirezionale stretta della coscienza con il fondo istintuale degli archetipi della specie e che, solamente riconoscendone la universalità e la necessità, secondo Kant assumendo il contenuto nella propria massima, l’individuo diventa un soggetto morale, quindi responsabile, le cui azioni possono tendere al Bene che, in questo caso, non può che essere ciò che è bene per la specie [24].

Le osservazioni contenute nell’ultimo pensiero kantiano, quindi, sono coerenti con la concezione junghiana dell’ontogenesi della condotta e contribuiscono a illustrarla.

 

Note

[13] Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, UTET, Torino, 1967, p. 128.

[14] Cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Critica della ragion pratica e altri scritti morali, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino, 1970, p. 65.

[15] Cfr. I. Kant, Critica della ragion pratica, in ivi, p. 150.

[16] I. Kant, Critica della ragion pratica, in ivi, p. 165.

[17] I. Kant, Critica della ragion pratica, in ivi., p. 156.

[18] I. Kant, Critica della ragion pratica, in ivi, p. 78.

[19] I. Kant, Critica della ragion pratica, in ivi, p. 167.

[20] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in ivi, p. 107.

[21] Cfr. S. Landucci, La Critica Della Ragion Pratica di Kant, La Nuova Italia, Firenze, 1993, p. 77.

[22] I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Roma-Bari, 1985, pp. 22-23.

[23] C.G. Jung, Tipi psicologici, Newton Compton, Roma, 2009, p. 361.

[24] Cfr. ivi, pp. 361-362.

 

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