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Selezione naturale della capacità morale e ontogenesi della condotta (2)

Selezione naturale della capacità morale e ontogenesi della condotta (2)

Nov 06

 

 

Articolo precedente: Selezione naturale della capacità morale e ontogenesi della condotta (1)

 

2. La capacità morale

Alcuni cenni della storia della morale dal punto di vista biologico.

Per l’empirismo lockiano l’esperienza sensibile fornisce i materiali su cui la mente potrà intervenire, in un secondo momento, con tutta una serie di operazioni e la conoscenza si configura come l’analisi della concordanza e della discordanza tra le idee. Non fa eccezione la conoscenza della moralità [2]. La esperienza si limita a introdurre i materiali che saranno poi utilizzati da facoltà già formate mentre si nega che l’esperienza, oltre a introdurre materiali, possa contribuire a modellare le strutture mentali necessarie per la conoscenza, possibilità che si desume, invece, dagli scritti di Darwin e Hume.
Hume e Darwin ipotizzano l’esistenza di una continuità nella capacità cognitive tra animali umani e non umani, una differenza che Darwin ha definito «di grado, non di genere» [3]. Il modello proposto da Darwin e da Hume prevede quindi sia delle acquisizioni specie-specifiche sia il piano della esperienza del singolo, che non possono essere descritte come due forme diverse di esperienza ma due forme tra loro comunicanti in entrambe le direzioni. Differenze permanenti a livello individuale possono essere quindi selezionate e diffondersi al resto della popolazione, mentre le acquisizioni storiche anteriori all’individuo costituiscono capacità fondamentali che regolano la cognizione e l’azione del singolo. Scompare la tradizionale barriera tra conoscenza a priori e a posteriori. Darwin arriva ad affermare: «C’è molta conoscenza senza esperienza» [4]. L’esperienza innata è il deposito di innumerevoli esperienze passate.

Nel Trattato sulla natura umana, Hume, esponendo il suo concetto di causalità, descrive la formazione dei costumi sociali, principi regolativi dell’azione che, sedimentandosi negli individui come senso morale, costituiscono la base del loro operare. Hume introduce il concetto di credenza, elemento importante del processo causale, che egli vede non come risultato di operazioni astratte nello scambio tra individui ma come il risultato di un processo di adattamento biosociale. La prima conseguenza è che il rapporto tra causa ed effetto non è un prodotto della ragione come elaborazione dell’esperienza. La congiunzione costante di fatti, cioè l’esperienza, non dà, per Hume, origine a una connessione necessaria [5]. La necessità della connessione si fonda sull’inferenza e non il contrario. Una congiunzione costante di fatti non ci permette di inferire che i casi futuri assomiglieranno a quelli passati, la assicurazione non può essere contenuta nel mero dato empirico. La ragione, per Hume, non potrà mai scoprire il fondamento dell’uniformità della natura mediante il semplice esame delle proprie idee. Il principio che associa gli oggetti dell’esperienza è il ‘costume mentale’ o principio di associazione. Il costume è in grado di fissare uno dei possibili modi associativi e far riposare la mente in una determinata credenza. Si può allora identificare nella credenza il principio chiave in grado di smuovere la mente non solo dal punto di vista della conoscenza ma anche dell’azione, quindi del comportamento morale. Nel processo della acquisizione del ‘costume mentale’ entrano quindi il deposito delle acquisizioni passate e tutta la storia delle transizioni individuali. Il ‘costume della mente’ è un processo regolativo specie-specifico che guida alla cognizione e all’azione. Si tratta di vere e proprie strutture mentali; le credenze, grazie all’elemento sensibile che le distingue dalle idee, sono in grado di sollecitare motivazioni all’azione.

Per Hume alla base del senso morale vi sono sempre il piacere o il dolore, che s’identificano quindi, rispettivamente, con il bene e con il male. Il costume, quindi, non solo produce inclinazioni verso certi oggetti, ma forma anche una vera scala di valori. Ciò è possibile perché in una morale concorrono sedimentazioni di giudizi morali oltre alle preferenze del singolo. Ciò è analogo alla darwiniana ‘ragione graduale’ frutto di selezione specie-specifica e individuale. Anche la ragione non opera in opposizione ma in continuità con queste ragioni; si tratta di veri istinti della specie come quello delle api di costruire un alveare.

Il senso morale, sia per Hume sia per Darwin, è una capacità naturale della specie e non un prodotto artificiale dei legislatori. Quindi la morale deriva dagli istinti sociali ed è un prodotto della selezione naturale. Le manifestazioni di altruismo del regno animale darebbero ragione a Darwin, come sostiene il primatologo F. de Waal [6].

Un aspetto problematico della teoria di Hume è che la virtù e il vizio sono ricondotti a peculiari sentimenti di piacere e di dolore: qualsiasi oggetto in grado di procurare piacere o dolore sarebbe, per sua natura, buono o cattivo. A questa obiezione Hume rispose che siamo in grado di distinguere, nel nostro giudizio, il carattere di una qualità dalle conseguenze piacevoli o spiacevoli che essa può provocare. Porta ad esempio: «Le buone qualità di un nemico ci sono nocive ma possono sollecitare in noi stima e rispetto» [7]. Saremmo in grado di distinguere il carattere astratto di certe qualità dal piacere o dispiacere che provocano in noi. Ciò che è moralmente buono o cattivo per noi sarebbe quindi ciò che non fa scaturire in noi un sentimento, il che avviene quando è considerato in generale:

È solo quando un carattere è considerato in generale, senza alcun riferimento al nostro interesse particolare, che causa un sentire o un sentimento che lo fa chiamare moralmente buono o cattivo. [8]

I costumi acquisiti della specie sarebbero in grado di operare come regole generali per giudicare la realtà senza essere preda delle sensazioni del momento. La definizione di Hume di vizio e di virtù corrisponde alle azioni che sono in grado di produrre sentimenti negativi e positivi. Il motivo virtuoso non può consistere nel semplice rispetto della virtù come avviene nel kantiano rispetto del dovere, ma deve essere antecedente al senso di rispetto per la virtù. Hume è contro l’utilitarismo classico secondo il quale il piacere e il dolore sono i soli moventi dell’azione morale e sostiene che il senso morale è frutto di una storia passata e di una selezione di abiti benefici che si sono trasformati in istinti [9]. Si tratta comunque di una forma di utilitarismo, anche se diversa da quella classica: buono è ciò che si è mostrato utile per la conservazione della specie.

In conclusione, raccontare la morale in termini biologici significa operare una biologicizzazione della capacità morale [10] cioè raccontare la storia naturale che ha permesso alla specie Homo Sapiens di possedere la capacità di formulare e applicare giudizi morali sul comportamento [11]. Non si tratta della storia naturale di uno specifico sistema di norme, bensì della storia naturale di come si arriva ad avere delle norme. La storia naturale non si concretizzerà necessariamente in specifici sistemi morali che si definiranno a partire dalle interazioni contingenti tra la struttura biologica e le contingenze storiche. Questa è la spiegazione di Darwin e Hume: la diversità dei sistemi etici può essere spiegata attraverso il concorso tra le contingenze e gli istinti sociali.

Il senso morale ha bisogno, per replicarsi, di un contesto di interazioni sociali in atto in cui individui unici possano compiere le proprie scelte. Il medesimo bagaglio evolutivo, sviluppandosi in differenti contesti, può produrre una pluralità di sistemi etici. La responsabilità morale consiste quindi nella possibilità di fare uso di una capacità morale [12]. Quindi secondo Hume e Darwin la capacità morale è definita contestualmente, cioè in funzione di particolari condizioni storiche, e non è una proprietà intrinseca dell’individuo.

 

Note

[2] Cfr. J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, Laterza, Roma, 1988, libro IV, capitolo III, § 20, p. 623.

[3] Citato in J. Rachels, Creati dagli animali. Implicazioni morali del darwinismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1996, p. 78.

[4] C. Darwin, Vecchie e inutili note sul senso morale e alcuni temi di metafisica, in «Micromega», 2002, n. 5, p. 253.

[5] Cfr. D. Hume, A Treatise of Human Nature, Oxford University Press, Oxford, 2000, libro I, parte III, sezione VI, capoverso 3.

[6] Cfr. F.de Waal, «Morally Evolved: Primate Social Instincts, Human Morality and the Rise and Fall of “Veneer Theory”», in Primate and Philosophers. How Morality Evolved, Princeton University Press, Princeton, 2006.

[7] D. Hume, Op. cit., libro III, parte I, sezione II, capoverso 4.

[8] Ibidem.

[9] Cfr. E. Lacadano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 1991, pp. 134-147.

[10] Cfr. G. Bonolo, Il limite e il ribelle. Etica, naturalismo, darwinismo, Cortina, Milano, 2003, p. 134.

[11] Cfr. E. Lecaldano, Op. cit., p 137.

[12] Cfr. ibidem.

 

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