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Il piacere nell’Etica di Abelardo

Il piacere nell’Etica di Abelardo

Ott 13

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Com’è universalmente noto, il cristianesimo medioevale non aveva una buona opinione della natura umana, la quale era corrotta dal peccato originale, e massimamente non l’aveva del piacere, il quale era generalmente considerato peccaminoso.

Abelardo, nella sua Etica, compie una serie di operazioni volte invece a rivalutare la natura umana. Il perno attorno cui ruota la sua dimostrazione è questo assunto: il peccato risiede unicamente nel consenso che il soggetto accorda all’azione. Dobbiamo dunque intendere, volendo esprimersi in termini moderni, il consenso del soggetto come una delibera ad agire in un certo senso: qualora impedimenti esterni, come la coercizione con la forza fisica, o interni, come l’addormentamento, blocchino il soggetto, questo non influisce sul piano del peccato.

Per andare sul punto che ci interessa, questo argomento implica che il piacere in sé non costituisca peccato.

Per dirla con le sue parole:

Alcuni si stupiscono e si adombrano non poco quando sentono dire che l’azione peccaminosa non aggiunge nulla alla colpevolezza o alla condanna in cui ci si trova di fronte a Dio. E oppongono che nell’azione peccaminosa segue un certo diletto che aumenta il peccato, come nel caso dell’unione sessuale o nel caso di mangiare frutti, come s’è detto più sopra. [1]

Per confutare quest’ultima tesi, Abelardo ricorre ad un procedimento tipico della filosofia scolastica, la reductio ad absurdum. Egli assume cioè la tesi dei suoi avversari allo scopo di mostrare le contraddizioni che derivano da essa.

Il piacere che consegue da un’azione peccaminosa, si sostiene, aumenta lo stato di peccato. Ma, ribatte Abelardo, se così fosse ne deriverebbe che esso sarebbe in sé peccaminoso; pertanto anche le azioni lecite, qualora arrecassero piacere, diverrebbero peccaminose. Insomma, dal momento che inevitabilmente mangiare un frutto succulento ci arrecherà piacere, quest’atto diverrebbe necessariamente peccaminoso, sia che il frutto lo avessimo rubato, sia che lo avessimo lecitamente comprato.

Naturalmente la lettura dell’argomento abelardiano presuppone una sua corretta collocazione sul piano storico. Abelardo, scrivendo nel XI secolo, non ha certo in mente proprietà emergenti o predicati relazionali. Pertanto, gli sembra assolutamente lecito derivare da un predicato diadico un predicato a un posto. Ovvero, tradotto in termini meno formali, l’argomento per cui dal fatto che il piacere aumenti lo stato di peccato di un’azione, si dovrebbe dedurre che in sé il piacere sia peccaminoso, viene accettato con molta facilità.

Nota

[1] Cfr. Pietro Abelardo, Conosci te stesso o Etica, a cura di Mario Dal Pra, la Nuova Italia, Firenze 1976.


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