I colori e gli enunciati di valore: alcuni parallelismi
I colori e gli enunciati di valore: alcuni parallelismi
Set 22[ad#Ret Big]
Alcuni studiosi ritengono che la filosofia etica potrebbe trarre giovamento da una riflessione sui parallelismi presenti fra i giudizi morali e i giudizi inerenti le cosiddette “qualità secondarie”.
Esse, insieme alle qualità primarie, costituiscono un binomio nato nel ‘600, per distinguere fra le proprietà che appartengono di per sé ad un corpo (estensione, moto, etc.) e proprietà presenti nel soggetto, che si attivano in corrispondenza di certe qualità della materia [1]. Nel caso dei colori, proprietà microfisiche degli oggetti in grado di emettere, se investite da un raggio di luce, onde di una particolare frequenza. Per comprendere meglio in che senso le qualità secondarie abbiano una componente soggettiva assente in quelle primarie, si può considerare il fatto che una qualità primaria, ad esempio l’estensione, è descrivibile senza far riferimento ad uno specifico contenuto sensibile (il quale, seppur di aiuto per la comprensione, non è essenziale: un cieco può formarsi un’idea dell’estensione tramite il tatto, pur mancando della vista). La descrizione di una qualità secondaria non può invece prescindere da un riferimento sensibile, ad esempio la percezione del colore rosso. È infatti evidente che se io volessi spiegare ad un uomo cieco dalla nascita cosa fosse il rosso, una semplice descrizione delle proprietà della materia che causano tale percezione non sarebbe soddisfacente.
Un modello descrittivo che possa rappresentare efficacemente la nostra percezione del colore rosso dovrà, inoltre, considerare il fatto che il soggetto proietta questa qualità sull’oggetto, rendendolo quindi un oggetto (avente la proprietà di essere) rosso.
Per rendere conto di eventuali discrepanze, dovute a contingenze, si definirà un oggetto rosso se e solo se appare rosso ad un pubblico normale in condizioni normali (assumendo “rosso” come primitivo, dobbiamo reintrodurlo nella definizione).
Andiamo ora sull’etica. Connetteremo le osservazioni compiute sulla teoria riguardo le qualità secondarie al notissimo dibattito sul diverso statuto degli enunciati descrittivi e di quelli di valore. In estrema sintesi, il problema riguarda la complessità (e secondo molti l’impossibilità) di ridurre gli enunciati di valore in un sistema descrittivo, a causa di alcune loro proprietà, come la preferibilità, o l’implicare condotte – il “dover essere”, che secondo Hume non si può inferire dall’essere. Pertanto, enunciati di valore, come “non si deve mai uccidere un uomo”, non potrebbero essere assimilati a enunciati descrittivi, come “la mela è sul tavolo”.
Più in generale, anche si arrivasse a superare tutti gli altri problemi, resterebbe quello del referente. Se infatti assumiamo che l’enunciato “la tal cosa è bene” è vero, ne segue che questa cosa deve avere la proprietà “bene”; la quale sarebbe una ben strana proprietà, e per trovarla dovremmo probabilmente dirigerci verso una qualche riedizione dell’iperuranio platoniano.
Ora, un modello come quello delle qualità secondarie permetterebbe secondo alcuni di superare questo problema, in quanto congiungerebbe elementi oggettivi e soggettivi. Gli oggetti e gli atti avrebbero sì una qualche proprietà che potremmo definire come “bene”, ma solo in relazione ad un agente. E quando, sorvolando su questo stato relazionale, definiremmo “buono” un oggetto, compiremmo la stessa operazione “proiettiva” di quando attribuiamo il predicato “rosso” a un oggetto, il quale ha, in realtà, solo la disposizione ad apparire rosso alla nostra vista in certe condizioni che definiamo normali.
Naturalmente il parallelismo presenta i suoi limiti. Per rendercene conto basterà osservare che il fatto che la maggior parte delle persone in certe condizioni veda un oggetto come rosso basterà a definirlo come tale. Non così per i giudizi morali, dove un osservatore non è certo obbligato a piegarsi al giudizio della maggioranza. Più in generale, quello di trovare un “punto di osservazione standard”, che permetta giudizi morali concordi, pare u’impresa estremamente più difficile, se non impossibile.
Nota
[1] In effetti, il discorso della corrispondenza fra qualità della materia e percezioni è molto complesso, e tuttora aperto: ad esempio, in natura un suono può variare di intensità senza che timbro e altezza ne siano modificati. Nella percezione il cambiamento di una variabile può influenzare le altre. (Questo esempio, insieme a molti altri, si può trovare in von Hayek, L’ordine sensoriale, Milano: Rusconi, 1990.)
Il giudizio morale e’ strettamente collegato al concetto di liberta’ d’azione e dei suoi risvolti filosofici e naturali.
ad esempio: nell’ambito sociale (che e’ quello a cui la Morale fa’ riferimento) la liberta’ d’azione dell’individuo non e’ fine a se’ stessa, ma si pone essenzialmente in relazione con l’individuo prossimo. Ogni azione liberamente compiuta ha delle naturali ripercussioni anche sulla liberta’ dei soggetti con i quali interagiamo concretamente o con i quali potremmo interagire potenzialmente.
Per esemplificare: se un soggetto uccide un altro soggetto, privera’ della vita quell’individuo, ma potenzialmente privera’ della vita anche chi avrebbe potuto nascere da quel soggetto ucciso, nonche’ far soffrire chi gli era affettivamente legato, influenzandone le scelte finali e facendo venir meno il primo requisito di libera scelta individuale.
Dunque, La liberta’ di un uomo di essere ucciso puo’ non coincidere con la liberta’ del secondo uomo di NON essere ucciso. La liberta’ di entrambe gli uomini ( dal loro unico punto di vista) e’ formalmente corretta, ma, oggettivamente intesa, si pone in contrasto con il concetto stesso di liberta’ e di libero arbitrio. Ecco dunque, la necessita’ di adottare uno strumento attraverso il quale equilibrare le parti in causa. Ma come scegliere una soluzione piuttosto che un’altra? E qui e’ necessario appoggiarsi all’intuizione filosofica, la quale postula una conoscibilita’ della causa e della soluzione, attuabile attraverso il ragionamento razionale e che, nella razionalita’ ( la quale, come abbiamo detto, essendo frutto del pensiero e’ naturale nell’uomo) si deve fondare. Chiaro sara’ quindi che la tensione naturale dell’uomo alla conservazione della propria vita materiale, (riprendendo l’esempio precedente) e’ funzione superiore rispetto alla tensione (innaturale) verso la morte. Dunque? Al fine di equilibrare una relazione umana fra due soggetti che si contedono una liberta’ potenziale, il secondo soggetto dovra’ vedere negata la propria liberta’ in favore della liberta’ del primo soggetto.
Per concludere, attraverso il ragionamento razionale e’ possibile definire un Giudizio Morale, di valore assoluto, pur nella sua immensa complessita’.
Caro Gioele,
ho molto apprezzato la tua discussione su questo punto molto problematico e tornato in auge nella filosofia post-McDowell.
Ti chiedo un’opinione su due questioni:
a) Tu dici che non si possa spiegare a un cieco cosa sia il rosso. Non ne sono così sicuro: io non posso mostrargli il rosso, ma posso spiegare cosa esso sia (es.: è una determinata onda sullo spettro dei colori. Oppure: è un segnale d’allarme). Ovviamente l’impiego da parte del cieco di queste nozioni sarà molto limitato: sa che il rosso è un segnale d’allarme, ma non potendolo vedere non lo potrà usare a questo fine. In termini tecnici: ha il know that, ma non il know how. Ora se si applicasse una perfetta analogia tra colori e valori, allora ci sarebbero persone che possono sapere cosa è il bene, ma che mancano di un ‘senso’ che gli permetta di applicare il know that. Io non sono per nulla d’accordo con questa prospettiva, per svariati motivi. Tu cosa ne pensi?
b) Noto che hai usato la terminologia proiettiva che impiegano anche emotivisti e espressivisti. Colori e valori sono proprietà che il soggetto proietta sulla realtà. Tuttavia, anche se l’analogia tra i due fenomeni fosse valida, mi chiedo se il lessico proiettivo sia corretto, anche solo per i colori. Dopotutto il colore è una interazione tra mente umana e mondo: se il nostro cervello non elaborasse il dato non ci sarebbero i colori, ma non ci sarebbero anche se non ci fossero le onde luminose. Mi sento molto kantiano in questo caso (‘le intuizioni senza i concetti sono cieche, i concetti senza le intuizioni sono vuoti’), ma mi sembra un punto abbastanza importante. Ancora una volta mi piacerebbe sentire la tua opinione!
Ciao Davide,
Ti ringrazio per queste domande-osservazioni; cerco di, come si dice in giurisprudenza “frazionare la domanda”; fammi sapere se ci sono riuscito 😉
Per quanto riguarda la (prima parte) della prima domanda, io penso che il problema riguardi cosa si intende per “sapere che cos’è” il rosso. In questo senso, una descrizione teorica e una conoscenza degli effetti (ad esempio che in un certo contesto sarà un segnale di allarme) non è sufficiente, è insomma necessaria le percezione visiva. Questo non tanto per la possibilità di utilizzo. Anche qualora una macchina portatile potesse emettere dei segnali uditivi che indicano ad un cieco quando si trova davanti a un oggetto di colore rosso, io non direi che lui “sa cos’è il rosso”. Ma naturalmente questa è una mia personale opinione.
Per la seconda parte della prima domanda, mi sembra un punto molto interessante. Non ti so dire molto perché in effetti non ci avevo mai riflettuto. Di primo acchito, mi sembra un “paradosso” che si potrebbe applicare in generale ad ogni intuizionismo. Ma forse ci sono delle formulazioni che permettono di aggirarlo, non lo so. In ogni caso, davvero interessante!
Per il secondo punto: quando stavo ancora “progettando” l’articolo, avevo pensato di inserire almeno una glossa sulle principali teorie (proiettivisti, disposizionalisti e fisicalisti). Ma poi l’articolo era piuttosto breve, e mi è sembrato l’avrebbe appesantito troppo.
In generale, sono d’accordo con te sul fatto che, se una teoria non deve ridurre tutto all’oggetto, non deve neanche prescindere da esso. Quindi, se si vuole è un proiettivismo vicino al disposizionalismo. Quello che mi piace del proiettivismo è che rende conto della nostra tendenza a percepire le qualità secondarie come proprie degli oggetti. Se io entro in una stanza semibuia e accendo la luce, non ho la sensazione che i colori si “attivino” (cioè, che la disposizione dei soggetti a “colorarsi” se investiti dalla luce si sia attivata con l’arrivo della luce). Ho la sensazione che i colori ci siano sempre stati e la luce li abbia al più “rivelati”. Certo, un problema di questa impostazione è che finisce per considerare quantomeno parzialmente illusorie le nostre percezioni.
Grazie ancora! Un saluto,
Gioele
Caro Gioele,
fa molto piacere, soprattutto a chi come me ha studiato a lungo il problema cromatico dal punto di vista filosofico (avendoci lavorato tra l’altro per la mia tesi di Dottorato), che ogni tanto si torni a parlare di questo straordinario oggetto di speculazione che è il colore. Ciò che dici risulta, peraltro molto interessante ai miei occhi.
Tuttavia, avrei un paio di argomenti da sottoporti.
1. A mio avviso dai troppo per scontato che i colori siano “qualità secondarie”. Certo sembrerebbe che Kant nell’estetica trascendentale ne parli in questi termini, tuttavia se stiamo alla trattazione più completa che nel Novecento sia stata fatta dell’argomento – alludo alle proposizioni wittgensteiniane sul tema del colore – potrei affermare che se i colori, la loro manifestazione, la loro percezione e la loro definizione linguistica sono fenomeni in gran parte soggettivi, tuttavia l’”aver colore” è da ritenersi una forma irrinunciabile di qualsiasi oggetto presente nella realtà allo stesso modo dello spazio e del tempo. “2.0251 Spazio, tempo e colore (aver colore) sono forme degli oggetti.” (TLP) Wittgenstein parla degli oggetti di per sè non colorati solo come transizione dal concetto di qualità a quello di forma (“2.0232 Detto di passaggio: gli oggetti sono incolori.” TLP) che risulta essere ben più adeguato a descrivere il carattere di “forme “pure” a priori” (come direbbe Kant stesso) che i colori hanno.
2. La questione della percezione – dici bene nella nota – è molto più complessa di come possa apparire a tutta prima. Vi sono innumerevoli ricerche sia nel campo filosofico che in quello fisiologico che testimoniano del fatto che il fenomeno della percezione cromatica non risiede solo a livello cerebrale, ma si situa in un vero e proprio sistema percettivo in cui pure i recettori più periferici sono in grado di decodificare informazioni. La situazione è molto più complessa. In questa sede però, ci terrei a mantenere una posizione ‘democratica’ quanto alla gerarchia dei nostri sensi, ognuno dei quali ha piena dignità, ma soprattutto ha una compiutezza linguistica autonoma. Questo significa che così come non posso insegnare il significato di ‘rosso’ ad un cieco dalla nascita, non potrei insegnare il ‘ruvido’ a colui che non avesse mai avuto un sistema tattile normale. Insomma, non dobbiamo compiere un errore che in Occidente è piuttosto diffuso, cioè quello della sopravvalutazione dell’importanza dei fenomeni visivi rispetto a quelli che interessano gli altri organi di percezione che non siano gli occhi.
Come detto, la questione dei colori è complessa e molto affascinante e proprio per questo me ne sono occupato intensamente. Se tu e coloro che leggono questo interessantissimo blog voleste approfondire la mia posizione sul tema vi rinvierei ad alcuni miei scritti che riporto in una breve bibliografia di sintesi. Grazie dell’attenzione.
– Il gioco dei volti in “Paradigmi. Rivista di critica filosofica”, n.41, maggio-agosto 1996, pp.339-58
– La comunità felice, Cacucci editore, Bari 1997
– Notes for a Color Phenomenology, in “S – European Journal for Semiotic Studies”, Vienna (Austria), vol.11, (4), 1999, p.595-607
– Wittgenstein and the light–color problem, in “Semiotica”, Mouton de Gruyter, Berlin – New York, 136-1/4, (2001), pp.85-94
– Le regole della comunità, Progedit, Bari 2004
Caro Giuseppe,
ti ringrazio moltissimo per le tue acute osservazioni. Mi sembra che in parte mi possa collegare a quello che dicevo sopra a Davide. La forma dell’articolo breve mi ha portato ad assumere certe impostazioni, senza (magari doverosamente)illustrare le altre presenti nel dibattito contemporaneo.
Vorrei solo aggiungere che condivido appieno il tuo “incipit”: questo argomento, che a prima potrebbe apparire marginale, è in realtà ricchissimo di implicazioni molto feconde, anche in altri campi (e non penso ci sia neanche bisogno di accennare al buon vecchio Moore)
Un saluto,
Gioele