John Stuart Mill e l’utilitarismo qualitativo
John Stuart Mill e l’utilitarismo qualitativo
Mag 19[ad#Ret Big]
Oggi pubblichiamo il primo articolo di Gioele Gambaro, studente di Filosofia all’Università di Milano, che inizia la sua collaborazione con Filosofia Blog occupandosi di Etica. Ringraziandolo per il suo contributo, gli diamo il benvenuto tra i collaboratori del blog.
Come è noto, con “utilitarismo”, si intende qualsiasi dottrina che ponga la felicità o il benessere come base dell’agire.
La fondazione di questa dottrina, la felicità come fine ultimo dell’agire, è sempre stata un vanto degli utilitaristi. Le precedenti dottrine, essi sostengono, si fondavano su presupposti teologici, metafisici, precari e difficilmente dimostrabili, che si trattasse di postulati nel noumeno kantiano, di comandamenti divini da accettare per Fede, o di mondi delle Idee da giungere a contemplare (quest’ultimo, ovviamente, il fine dell’etica platonica).
L’utilitarismo, invece, sembra partire da un principio, quello della desiderabilità del benessere, talmente intuitivo da poter essere assunto come assioma di per sé evidente.
In realtà le cose, per gli utilitaristi, si riveleranno più complesse: se infatti per felicità si intende la felicità personale dell’agente (utilitarismo egoistico), la teoria sembra portare a conseguenze molto poco “morali”. Se invece, come generalmente è stato assunto, per benessere si intende il benessere complessivo, cioè di tutta la popolazione, l’intuibilità di questa dottrina inizia a vacillare. Ciò è particolarmente vero se si suppongono dei casi conflittuali, dove l’agente, per ottimizzare il benessere collettivo, deve diminuire il suo proprio benessere. Quasi tutti i casi di sacrificio altruistico rientrano in questa categoria.
Il secondo elemento caratterizzante l’utilitarismo è il suo essere un’etica consequenzialista: esso cioè valuta la bontà delle azioni sulla base dei risultati che producono, considerando irrilevanti le motivazioni dell’agente (1). Salvare un uomo in pericolo di vita sarà una buona azione, anche se il salvatore spera così facendo di entrare nelle sue grazie, e agisce dunque per motivi egoistici.
L’etica di John Stuart Mill, volendola inquadrare storicamente, può essere considerata il tentativo
di adattare l’utilitarismo alla moralizzazione dei costumi tipica della società inglese in età vittoriana (2).
Quello di Mill è infatti un utilitarismo particolare, il cosiddetto “utilitarismo qualitativo”. Chiariamo subito che questo passaggio – da quantitativo a qualitativo – è molto importante, al punto che negli anni (per non dire nei secoli) in molti hanno contestato la pretesa di inserire Mill fra gli utilitaristi. A questo proposito si potrebbe ricordare Benedetto Croce (3), il quale considera l’etica di Mill come il “momento dialettico” dell’utilitarismo, quando cioè quest’ultimo finisce per negare se stesso e i suoi presupposti.
Per inquadrare l’etica di Mill, partiamo dalla definizione attuale di utilitarismo, per la quale esso è:
La dottrina secondo cui l’atto giusto è l’atto che, realmente o probabilmente, produce direttamente, o indirettamente, almeno tanto bene intrinseco quanto qualsiasi altra azione accessibile all’agente in questione (4)
Da questa generica definizione ricaviamo che è necessario calcolare quali atti generino più o meno piacere. Nell’utilitarismo, tipicamente, per questi calcoli venivano usati parametri quantitativi quali intensità, lunghezza, probabilità del piacere. Per cui ad esempio a un piacere molto intenso, ma brevissimo e poco probabile, sarà saggio preferire un piacere un po’ meno intenso, ma duraturo e molto probabile.
Mill invece, primariamente, divide il piacere in qualità: dai più nobili, come i piaceri morali e intellettuali, ai meno nobili, come quelli fisici.
Il lettore potrebbe a questo punto obbiettare (e sarebbe un’obiezione sensata) che il cambiamento non è poi così rilevante: siamo infatti ancora in un sistema quantitativo, solo con l’aggiunta di un nuovo parametro, la “nobiltà”, di cui tener conto nella nostra “computazione etica”.
Si noti per inciso che quest’ultima è stata una teoria esistente (il così detto utilitarismo “quantitativo misto”, sostenuto ad esempio da Hutchenson). Ma non è questo che intende con “qualità” Mill.
Il punto è che per Mill (possiamo dire semplificando forse in maniera non eccessiva) la nobiltà non è un parametro, è il parametro. Un piacere qualitativamente superiore sarà sempre preferibile ad uno qualitativamente inferiore, per quanto quest’ultimo possa essere vantaggioso sui parametri quantitativi (sia cioè più lungo, più intenso etc.); al punto che, quantomeno in un contesto in cui siano disponibili piaceri di tipo superiore, i piaceri di tipo inferiore perdono ogni valore.
Su questo punto Mill è estremamente chiaro:
[…] ci si può chiedere se chi è rimasto egualmente disponibile ai piaceri di entrambe le specie abbia mai potuto preferire la specie inferiore, scientemente e ponderatamente, a quella superiore; certo è che molti, in ogni epoca, hanno visto fallire tutti i loro vani tentativi di combinare insieme gli uni e gli altri (5).
O ancora
[…] e si danno [gli uomini] ai piaceri inferiori, non perché deliberatamente li preferiscano, ma perché sono gli unici a cui hanno accesso oppure di cui riescano oramai a godere (6).
Ricapitolando: abbiamo visto che Mill pone al centro della sua etica il piacere, il quale viene da lui diviso assiologicamente in base alla sua qualità. Giacché questa divisione deve essere “oggettiva” (Mill non sta dicendo che ognuno preferirà certi piaceri ad altri, a seconda che li valuti più nobili o meno: sta dicendo che certi piaceri sono oggettivamente più nobili degli altri), servirà un criterio per stabilirla. L’idea di Mill in proposito è la seguente: chiunque abbia fatto esperienze sia dei piaceri meno nobili, che di quelli più nobili, non potrà che preferire i secondi. Se uno predilige i primi è (a parte circostanze eccezionali) perché non è a conoscenza dei secondi.
Per riprendere quello che è forse il passo più celebre di tutta l’opera di Mill:
È meglio essere una creatura umana inappagata che un maiale appagato; meglio essere un Socrate insoddisfatto che uno sciocco soddisfatto. E se lo sciocco o il maiale sono di diverso parere, è perché vedono solo una faccia della questione (7).
Ci si rivolgerà quindi ai giudici competenti, persone che per cultura, sensibilità, etc. hanno avuto conoscenza dei piaceri derivanti dalla virtù e dall’esercizio delle facoltà superiori: essi sono pertanto i più indicati ad indicare quali siano i piaceri più desiderabili.
Note
(1) In realtà la questione è più complessa: in questa nota mi limiterò ad accennare al fatto che il conflitto è intimamente connesso con quello fra l’utilitarismo dell’atto e quello della regola.
(2) Cfr. Mario Praz, La letteratura inglese: dai romantici al novecento, Milano: Sansoni, 1971.
(3) Cfr. Benedetto Croce, Breviario di estetica: quattro lezioni, Bari: Laterza, 1913.
(4) Dagobert Runes, Dizionario di filosofia, Milano: A. Mondadori, 1972.
(5) John Stuart Mill, Utilitarismo, Bari: Editoriale universitaria, 1974.
(6) Mill, Utilitarismo, cit.
(7) Mill, Utilitarismo, cit.
Complimenti caro Iebitas , sono contento di aver potuto leggere questo tuo interessate articolo.
Sull’ argomento può essere interessante “La felicità” di Natoli, che riprende il ruolo fondamentale dell’ etica nella ricerca della felicità, intesa come vero piacere (dunque verità distillata da ogni aleatorietà). C’è dunque un rapporto tra verità, piacere e felicità che meriterebbe di venire approfondito anche nel suo divenire storico che sottraendo sempre più il valore etico finisce con il relegare il piacere alla dimensione fugace della pura istantanea emozione la cui intensità è regolata dalla mera biochimica cerebrale.
Si Maral condivido si è senz’altro passati da una “letizia” il cui valore intrinseco era eminentemente spirituale a una “felicità” più tendente alla materialità