La condizione femminile: un’introduzione
La condizione femminile: un’introduzione
Nov 10[ad#Ret Big]
La distinzione delle società in due gruppi – uomini e donne –, in base alle differenze sessuali, è un dato universale: non è stata trovata una sola cultura che non presenti questa distinzione. È invece estremamente variabile lo spettro di comportamenti che viene attribuito a ognuno dei due sessi. Quest’ultima affermazione è facilmente constatabile anche limitando la riflessione al solo occidente moderno: non è passato molto tempo da quando i maschi delle classi superiori amavano usare parrucche, profumi e calze di seta, abitudini che noi senz’altro oggi catalogheremmo come “femminili”.
Unico elemento sociale che presenta una certa costanza, sia geograficamente che storicamente, è il rapporto di forza, con l’uomo generalmente in una situazione di dominio, la donna di subalternità. Nonostante alcuni studi [1] abbiano mostrato delle eccezioni, in alcune società primitive, a questo modello, esso resta quello dominante.
Sulle cause di queste sperequazioni di potere sono state avanzate varie ipotesi. Prima, però, è necessario rimarcare la distinzione fra il dato biologico e quello culturale: possiamo vedere quest’ultimo come una sovrastruttura interpretativa che viene applicata al primo, prescrivendo ruoli sociali, aspettative comportamentali e status lavorativi a quegli individui che detengono una certa caratteristica biologica. Dobbiamo dunque tenere distinte, da un lato, le differenze anatomiche e genetiche, dall’altra gli aspetti culturali e sociali di questa distinzione.
Per quanto riguarda le posizioni “innatiste”, esse sostengono una relazione fra i ruoli sociali e le differenze a livello fisico fra i due sessi. In effetti studi sugli ormoni sembrano indicare qualche differenza biologica fra i due sessi a livello di comportamento, ma comunque secondaria. Va considerato inoltre che, essendo stati condotti su animali, i loro risultati non vanno applicati acriticamente agli uomini, che hanno una minore influenza degli ormoni sul comportamento.
Studi sui neonati (dunque su individui che dovrebbero aver ricevuto in minima misura influenze di tipo culturale) portano anch’essi a ritenere che fra i due sessi vi sia una qualche differenza comportamentale innata. In generale, le differenze sul piano biologico fra maschi e femmine non sembrano poter rendere conto, se non in minima parte, delle differenze sul piano culturale.
Le sperequazioni di potere sono senz’altro spiegabili nelle società primitive, ove le differenze di tipo fisico erano più rilevanti. La donna, sia perché partoriva e allattava, sia perché era meno dotata di forza fisica, aveva il compito di curare i figli, l’uomo di procurare il cibo: questa posizione rendeva la donna dipendente dall’uomo e, con il tempo, questa sperequazione veniva codificata socialmente, assegnando ai maschi uno status superiore rispetto alle donne.
Alcuni studiosi ritengono che questa suddivisione dei ruoli si sia in qualche maniera mantenuta nella società moderna in base a ragioni di innatismo psicologico: è cioè necessario che esista all’interno della famiglia un individuo che ricopre il ruolo “strumentale”, incentrato nei rapporti fra la famiglia e il mondo esterno, e chi compia il ruolo “espressivo”, specializzato nei rapporti interni nella famiglia.
Nell’ambito di una teoria del conflitto, nulla ci impedisce di studiare le donne come una qualsiasi minoranza [2]: avremo allora un gruppo dominante, quello degli uomini, che è interessato a mantenere il proprio status quo: e, naturalmente, gli uomini possono godere di uno status superiore solo se le donne hanno uno status inferiore.
Ora, giacché in tutte le società gli assetti culturali sono determinati dal gruppo dominante, vi sarà una ideologia tesa a rinforzare il modello vigente. Basti pensare solo al linguaggio comune, ad esempio con il termine “umanità” che designa le persone in generale. O, più in generale, a tutta l’ideologia della superiorità dell’uomo in termini di competenza, di capacità intellettuali, etc.
L’ideologia maschilista viene introiettata nei giovani in maniera permeante: già nei primi anni di vita le educazioni sono diverse nei due sessi, e ai maschi viene insegnato a non comportarsi da “femminucce”. Va da sé che ricevere una caratterizzazione negativa dei comportamenti riguardanti l’altro sesso provocherà in età più adulta psicologie maschiliste.
Ma senz’altro un altro canale molto importante sono i media: basti pensare a come viene presentata la donna nelle pubblicità.
Concludendo, sia i modelli esplicativi più interessati al piano biologico, sia quelli che si muovono nella sfera sociologica, sembrano riuscire a spiegare solo molto parzialmente le differenze sociali fra uomini e donne.
Note
[1] Cfr. Margaret Mead, Sesso e temperamento in tre società primitive, Milano, Il Saggiatore, 1967.
[2] Ricordo che in sociologia con “minoranza” si intende un qualsiasi gruppo discriminato in termini di accesso a potere, prestigio o di status lavorativi. Non è un termine quantitativamente vincolato, per cui può anche darsi il caso che una “minoranza” (sociologicamente intesa) costituisca la maggioranza della popolazione.
Così come è scritto, l’articolo dovrebbe essere postato in “sociologia” più che in “Etica”. Per riportarlo in “etica” sarebbe interessante studiare come le differenze biologiche tra i sessi portino a differenze di diritti.
Caro Rolando,
Sono d’accordo con te. In effetti avevamo pensato di creare una sezione “ad hoc” per questo post (che sarebbe stata o, come proponevi tu, “sociologia” o “gender studies”). Ma poi, per ragioni di semplicità, abbiamo preferito evitare (anche perché, a parte questo post propedeutico, i prossimi post sull’argomento saranno più strettamente “filosofici”).
Un saluto,
Gioele
Questione che in questi tempi mi pare più spinosa cha mai, anche dal punta di vista etico, in quanto si fanno sentire sempre più forti le voci di chi dichiara che i sessi non sono due e basta, scavalcando la questione dell’orientamento sessuale (gay e lesbiche, cha ancora in questo schema duale potrebbero starci) per includere bisessualità e transessualità.