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Il male: una sfida alla filosofia e alla teologia

Il male: una sfida alla filosofia e alla teologia

Mag 19

 

Oggi pubblichiamo il primo articolo di Irene Dimino, laureata in Filosofia presso l’Università di Palermo e attualmente impegnata nel master in Biodiritto, Etica e Scienza presso l’Università di Murcia (Spagna). Irene inizia la sua collaborazione con Filosofia Blog trattando del problema del male sia dal punto di vista filosofico sia da quello teologico. Ringraziandola per il contributo, le diamo il benvenuto tra i collaboratori del blog.

 

Ogni problematizzazione filosofica inizia sempre con il senso di stupore di fronte al mistero dell’essere. Per risolvere tale enigma lo si racconta, lo si problematizza, lo si interroga e lo si inserisce nella contemplazione disinteressata. Lo stesso può avvenire con un’esegesi del male?

Secondo il tradizionale pensiero medievale, che trova le sue radici nella filosofia neoplatonica e poi nel pensiero di Agostino, il male può essere spiegato semplicemente come un accidente in quanto opposto alla sostanza e a ciò che essa denota: l’Intellegibile, l’Uno e il Bene.

In epoca moderna, invece, l’esistenza del male viene ricondotto al male metafisico, ossia all’imperfezione ineludibile di ogni essere umano. La Teodicea leibniziana, e successivamente Kant, hanno individuato il male come prodotto dell’essere umano: la libertà è sempre «ontologicamente a priori» rispetto al dovere ed essendo perciò illimitata ha un potere demoniaco.

È soprattutto con l’avvento delle guerre mondiali, e in particolare della seconda, che diviene pregnante il ruolo dell’uomo come artefice del male: privo del Selbstdenken, Arendtianamente parlando, la persona diviene irresponsabile perché priva di quel dialogo interiore che aveva permesso a Socrate di accettare la morte preferendo soffrire il male piuttosto che commetterlo.

Se con Hegel il male era indispensabile giacché permetteva il dualismo del sistema attraverso la dialettica, in epoca contemporanea lo si identifica come il risultato della fragilità umana:

L’uomo è destinato alla razionalità illimitata, alla totalità e alla beatitudine; così come è limitato dalla morte e vincolato dal desiderio. Il paradosso tra il finito e l’infinito dell’uomo implica il pieno riconoscimento di questa polarità generatrice della fallibilità umana. [1]

Fragilità e fallibilità, allora, sono le due coordinate antropologiche essenziali per tracciare le origini del male come effetto della natura duplice ed ambivalente. Freud, d’altra parte, nell’opera Al di là del principio del piacere, aveva osservato che il principio del piacere contiene anche il suo opposto: la pulsione di vita è anche ed indissolubilmente pulsione di morte. Non soltanto in aspetti marginali, ma nella sua più intima e genuina struttura, la vita psichica stessa è costitutivamente duplice. La parola “diavolo”, infatti, deriva dal greco diabállein ed indica la doppiezza e la divisione. Ognuno di noi è quindi una combinazione di scissioni e raddoppiamenti che Herman Hesse definisce Abraxas:

la natura umana è voluttà e errore, uomo e donna, la cosa più sacra e la più ripugnante mescolate insieme, un grave senso di colpa guizzante nella più tenera innocenza. L’uomo è angelo e satana, umanità e bestialità, supremo bene e male estremo. [2]

Ciò non è forse stato dimostrato dagli orrori della storia e in particolare dagli stermini di massa del XX secolo che hanno creato un’elevata dose di ingiustizia, di insofferenza e di cinismo, mostrando quanto l’uomo possa essere crudele?

Questa constatazione, tuttavia, non chiarisce per quale ragione ogni giorno ci sono vittime innocenti a causa di disastri naturali e malattie.

Per dissipare questa aporia la filosofia abbraccia le istanze della teologia ponendo al centro della riflessione la figura di Cristo poiché «l’evento cristologico è il darsi definitivo della forma nella drammaticità del processo che per sé conduce al suo sereno acquietarsi nella chiarezza del sapere» [3].

La morte di Gesù è una vera e propria missione davanti alla quale Egli stesso dimostra tutto il suo terrore nell’Orto degli ulivi:

Gesù deve sviluppare la sua missione a partire da se stesso, e in questo senso cercarla e trovarla. La missione non gli si mostra in perfetta chiarezza, ma lo Spirito Santo gliela mostra a poco a poco, affinché possa conoscere e riconoscere la missione del Padre. In questo cercare e trovare consiste la libertà creativa. [4]

Cristo, facendosi carico di tutti i peccati del mondo, ha sperimentato la distanza da Dio, cioè dall’Amore assoluto.

Questa è la condizione in cui spesso è l’individuo: solo, senza speranza, non compreso da chi lo circonda come Raskolnikov nell’opera Delitto e Castigo di Dostoewskij, il quale riesce a superare i tormenti della coscienza grazie all’amore di Sònia:

Era andato da Sònia dicendo a se stesso che in quella creatura era ogni sua speranza, il suo rifugio: aveva pensato di deporre almeno una parte delle sue pene, ma ora quel cuore devoto s’era completamente dedicato a lui. [5]

E proprio l’amore di una donna aveva permesso a Dante di sopravvivere alle orrende visioni dell’inferno: Beatrice, in quanto potenza celeste e irradiazione della divinità, si era rivelata al poeta come guida verso il profondo amore nel senso cristiano. Ella è l’eros che si denuda fino alla più estrema umiliante nudità dell’anima per realizzare correzione e raddrizzamento.

Focalizzando l’attenzione su questi due esempi letterari è possibile tracciare il parallelo con la morte di Cristo:

l’eterno amore è disceso nel fondo delle tenebre e ha disvelato in croce la bellezza dell’amore trinitario. Per poter crescere al di sopra di se stesso e raggiungere una validità obiettiva era dovuto passare attraverso la morte dell’estrema umiliazione. [6]

Non poter staccare dalla visione del mondo la problematica del male, e soprattutto del male immeritato, è una costante dell’esistenza umana:

La vita è in modo singolare complicata. Sotto il pretesto di coniugare tutti gli estremi, essa è tuttavia una violenza contro se stessa. E poiché i cristiani erano disposti ad amare e ad affermare per amore di Dio lo stato di dannazione che derivava dal cielo alla terra, logica conseguenza ne fu che essi poterono rendersi familiare anche il pensiero di un esilio eterno, di un inferno, di questa orrida mescolanza di vita e di morte. [7]

Nella luce della vittoria pasquale del Risorto sul peccato e sulla morte, che rivela il fine ultimo dell’azione di Dio, occorre sottolineare innanzitutto l’assoluta supremazia della destinazione alla vita e alla gioia del disegno divino. Il destino finale dell’uomo e della storia coincide con la carità infinita che ne è l’origine: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4).

La teoria della retribuzione, del resto, secondo cui il male sofferto è la pena da scontare per i peccati commessi, aveva già perso credibilità nel Vecchio Testamento con la storia di Giobbe: il più giusto tra gli uomini, costretto ad affrontare e ad accettare tremendi supplizi. Per questo gli avvenimenti non hanno più il significato di una benedizione o di un castigo di Dio perché compare per la prima volta il problema del libero arbitrio. Nella libertà del volere l’uomo è libero così per il bene come per il male, ed in ciò consiste la sua propria storia: l’anima umana racconta della sua capacità creativa e distruttiva del moLndo:

in nessun luogo c’era amore e libertà, ma solo paura ed imbarazzo perché questi uomini sono pieni di cattiveria, cosicché non sentono che le loro leggi di vita non sono più giuste, e più nulla è adeguato a ciò che occorre. È venuta alla luce la vera miseria dell’anima. Che cosa sia un uomo realmente vivo si sa oggi meno che mai, e perciò si ammazzano gli uomini in grande quantità, mentre ognuno di essi è un tentativo prezioso ed unico della natura. [8]

L’idea che l’uomo possa trasformare il mondo in cui vive è attestato da Herni Bergson secondo il quale: «il creatore ha creato dei creatori. Noi siamo in una creazione incompiuta che è rinviata alla nostra cura affinché noi siamo dei concreatori». [9]

Concreare eleva l’individuo allo stato di cooperante, ossia capace di realizzare azioni responsabili attraverso le quali tenta di ridurre la sua nullità ontologica. Difatti essere responsabili vuol dire:

rispondere all’appello che viene da una situazione, dal tempo che si vive, dalla storia, rispondere in ordine a qualcosa, ma è soprattutto rispondere a qualcuno e più ancora rispondere di qualcuno. C’è dunque una dimensione intrinsecamente relazionale nella parola responsabilità e, allo stesso tempo, un legame imprescindibile con l’idea di libertà. Una libertà che non si traduca in responsabilità rimane astratta; la libertà riceve proprio dal nesso con la responsabilità quell’essenziale prospettiva relazionale che apre agli altri e alle situazioni di vita attraverso un riconoscimento dell’altro fondato sulla piena reciprocità, ma anche molto spesso caratterizzato da forme asimmetriche di rapporto. [10]

Pertanto se nel gioco dell’esistenza ognuno di noi è un connubio di scelte, è precisamente in questa rete di connessioni che si rende possibile l’evoluzione dell’esistenza como incontro / scontro di differenti personalità.

 

Note

[1] Paul Ricoeur, Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970, pp. 583-584.

[2] Herman Hesse, Demian, Mondadori, Milano 1972, pp. 73-74.

[3] Piero Coda, La percezione della forma. Fenomenologia e cristologia in Hegel, Città Nuova, Roma 2007, p. 22.

[4] Hans Urs von Balthasar, Teodrammatica, vol.5: l’ultimo atto, Jaka Book, Milano 1986, p. 229.

[5] Fëdor Dostoewskij, Delitto e castigo,Tascabili economici Newton, Roma 1997, p.352.

[6] Hans Urs von Balthasar, Gloria, una estetica teologica (Stili laicali), Jaka Book, Milano 1986, p.414.

[7] Ivi., p. 415.

[8] Herman Hesse, Demian, p.135.

[9] Henri Bergson, Le due fonti della morale e della religione, Brossura, Roma 2006, p. 145.

[10] Francesco Miano, Responsabilità, Alfredo Guida Editore, Napoli 2009, p. 8.

 

 


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