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Filosofia della violenza. Intervista a Lorenzo Magnani

Filosofia della violenza. Intervista a Lorenzo Magnani

Ago 24

 

Oggi pubblichiamo una nuova intervista del nostro collaboratore Gioele Gambaro a Lorenzo Magnani, docente di filosofia della scienza presso l’Università di Pavia, dove dirige il Computational Philosophy Laboratory, e autore del volume Filosofia della violenza (Il Nuovo Melangolo, 2012). Tra i suoi interessi di ricerca, la logica, le scienze cognitive, l’intelligenza artificiale e la filosofia della medicina. Ringraziamo il prof. Magnani per essersi prestato all’intervista e Gioele per averla realizzata.

Il volume Filosofia della violenza di Lorenzo Magnani si focalizza, con un approccio multidisciplinare, sui rapporti, spesso sottostimati, fra morale e violenza. Un approccio storico e naturalistico illustra la “genealogia della violenza” fin dai suoi esordi; l’analisi linguistica mette in luce sia la componente intrinsecamente violenta del linguaggio, sia i meccanismi tramite cui gli agenti riescono a ignorare conflitti morali. Vengono poi analizzati il ruolo dei mediatori morali e il rapporto fra religione e violenza.

In questo articolo abbiamo discusso con l’autore solo alcuni temi presenti nel libro, soluzione che ci è parsa più conveniente a quella di un articolo onnicomprensivo, ma che per eccesso di sintesi sarebbe assomigliato più a un arido bigino.

Ci focalizzeremo anzitutto sulla tesi del coalition enforcement, nei suoi risvolti sul rapporto fra morale e violenza. Proposta e argomentata dal sociologo John Bingham essa, in estrema sintesi, analizza la cooperazione sociale in funzione della moralità. Gli agenti stipulano norme, anche morali, orientate a garantire il benessere del gruppo (o la predominanza del gruppo dominante). L’istituzione di certe norme comporta la punizione di quanti le infrangono; a livello di società primitiva, coloro che non rispettano le regole sono gli “scrocconi”, che non condividono le risorse. La punizione, se inflitta dalla società tutta, permette una distribuzione della violenza – che pertanto è percepita in misura minore a livello del singolo agente – e rafforza la coesione del gruppo. Lo stesso altruismo può portare alla violenza, verso chi altruista non è.

D: La tesi del coalition enforcement ci mostra stretti legami fra morale e violenza, già nelle società primitive. D’altronde alcuni concetti della teoria delle catastrofi del matematico René Thom [1] (come per Bingham), analizzati nel suo libro, ci portano a vedere come il linguaggio nasca con una funzione prescrittiva ancor prima che descrittiva.

R: In uno sguardo multidisciplinare, evoluzionista e naturalista (senza cioè valutare se esistano morali migliori) – ed è questo lo sguardo dei paleoantropologi – si deve immaginare una funzione primariamente prescrittiva del linguaggio, nel senso che riguarda immediatamente i bisogni: il sesso, il cibo, i predatori, etc. Nel processo di socializzazione la funzione prescrittiva è quella di delineare le regole che tengono insieme il gruppo. Dunque, da un lato che venga punito chi infrange le norme, dall’altro che si eserciti violenza verso altri gruppi con regole diverse.

D: Parlando di prescrizioni e descrizioni, non si può non accennare alla legge di Hume [2]. Qual è la sua opinione a riguardo?

R: Oltre all’aspetto storico, mi preme sottolineare come non sia tanto importante addentrarsi nelle dispute sulla fallacia naturalistica, quanto – con un approccio, se si vuole, più “da lontano” – evidenziare le prescrizioni che sono sempre presenti nel linguaggio descrittivo. Prendiamo un sillogismo: A implica B, ma A, dunque B. Il modus ponens. Si potrebbe pensare a qualcosa di più astratto e rarefatto? Ma dal momento in cui io affermo che questo è un modo di ragionare che preserva il valore di verità, io sto implicitamente segnalandoti che devi crederci. Dunque anche in questo campo troviamo delle prescrizioni. La verità esercita una pressione normativa: essa è coercitiva, nel senso che esercita pressioni per mantenere o modificare certe credenze.

D: Un altro tema molto presente nel suo testo è la demistificazione della violenza, soprattutto di quella istituzionalizzata.

R: Con il monopolio della violenza da parte degli Stati moderni, l’unica violenza legittima diviene quella perpetrata dalla legge. Naturalmente anche la legge ha una componente violenta e coercitiva, ma essa si ritrova, come dicevo, anche – e primariamente – nella morale. La morale è violenta sin dal suo atto originario, vale a dire dalla sua istituzione. Nelle società contemporanee esistono molte morali: anche i malavitosi, che noi possiamo giudicare semplicemente immorali, hanno in realtà una loro morale, quella dell’onore, che prevede dei codici di condotta, delle devianze, etc.

Il punto è che queste morali di cui ho parlato non sono mantenute staticamente da un agente, il quale può attivare, a seconda delle circostanze, una morale diversa. Se necessario, anche un agente radicato in una morale magico religiosa può – ad esempio in caso di una malattia – temporaneamente accettare la moralità che rimanda alla appropriatezza della cura scientifica-medica, salvo poi abbandonarla una volta guarito (o non guarito). Può fare sue in alcune circostanze la morale cattolica, in altre quella laica e, persino, quella mafiosa dell’onore. Le bolle morali [3] permettono di non avvertire le contraddizioni di quest’approccio.

D: Il concetto di bolla morale riporta naturalmente alle tesi dello psicologo Albert Bandura – più volte citato nel suo libro. Che cosa condivide e dove è invece in disaccordo con il suo pensiero?

R: Condivido parte del pensiero di Bandura, che individua vari meccanismi attraverso cui gli agenti possono risolvere i loro conflitti morali [4], come l’etichettamento eufemistico, cioè la tendenza a giudicare in maniera linguisticamente più indulgente le proprie infrazioni alla morale rispetto ad analoghe infrazioni compiute da altri. Quello che invece non condivido del suo approccio è il suo vedere l’avvio di questi processi come una disattivazione della morale, mentre io, come dicevo, ritengo che gli agenti, più che disattivare la loro morale, la cambino con un’altra a seconda delle circostanze. Questo è, in parte, dovuto all’orizzonte naturalistico entro cui lavoro.

Note

[1] Il modello della semiofisica di Thom vede instaurarsi un rapporto fra delle forme salienti (percezioni particolari) che comportano attivazioni psichiche nell’agente tramite la pregnanza. Così, nel celebre caso dei cani di Pavlov, la forma saliente del suono del campanello viene – per abduzione – investito della pregnanza propria del cibo (ovvero, le reazioni del cane – aumento di salivazione, etc. – saranno analoghe sia in presenza del cibo che in presenza del suono del campanello).

[2] Detta anche fallacia naturalistica, sostiene la netta divisione fra gli enunciati descrittivi e quelli prescrittivi.

[3] Concetto isomorfico a quello di bolla epistemica: quest’ultima è la tendenza ad attuare varie fallacie pur di mantenere una certa credenza (ad esempio ignorare certe informazioni che screditerebbero la convinzione). Le bolle morali sono analoghi meccanismi che spingono l’agente a ignorare le contraddizioni nelle sue credenze morali, rendendogli difficile liberarsene – o ammettere di averle infrante.

[4] I “meccanismi inibitori” studiati da Bandura sono meccanismi che l’agente attiva per risolvere conflitti morali: a titolo di esempio si possono ricordare la costruzione di un’identità stigmatizzata sulla vittima di un’aggressione o il “confronto vantaggioso”, dove le azioni immorali possono instaurare un minor senso di colpa nell’agente se esso le paragona ad azioni simili, ma più gravi, della stessa classe.

Bibliografia

Lorenzo Magnani, Filosofia della violenza, Il Nuovo Melangolo, 2012.


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2 comments

  1. chilly

    si chiama Albert Bandura, non Alfred.

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