Considerazioni etiche sull’aborto
Considerazioni etiche sull’aborto
Set 17
E se un giorno tu me lo rimproverassi gridando “chi ti ha chiesto di mettermi al mondo, perché mi ci hai messo, perché?”. La vita è una fatica, una guerra che si ripete ogni giorno. Come faccio a sapere che non sarebbe giusto buttarti via, come faccio a sapere che non vuoi essere restituito al silenzio ? Non puoi mica parlarmi. La tua goccia di vita è soltanto un mondo di cellule appena iniziate. Forse non è nemmeno vita ma possibilità di vita. [1]
Con queste parole dal carattere struggente la scrittrice Oriana Fallaci mette per iscritto il dramma di molte donne davanti alla faticosa e talvolta non desiderata scelta di interrompere una gravidanza preferendo il nulla dell’esistere al timore di dover essere responsabili di un neonato.
Per determinare le implicazioni dell’interruzione volontaria della gravidanza è necessario discernere tra l’etica, la religione come fatto concreto e le interpretazioni, possibili o reali, attuabili sulla relazione tra questi elementi.
Sicuramente la difficoltà etica di maggiore rilievo relativa all’aborto riguarda il valore da attribuire all’embrione nelle fasi iniziali della gestazione e la conseguente possibilità di intervenire su di esso. Perciò è stato creato il vocabolo “pre-embirone” per riferirsi a quello stato della vita prenatale che va dalla fecondazione fino alla comparsa della linea primitiva, ossia fino al quattordicesimo giorno:
Secondo costoro il pre-embrione apparterrebbe a una categoria intermedia tra le cose e gli individui umani e, perciò, dovrebbe ricevere un rispetto superiore a quello che si ha per un tessuto umano, ma inferiore a quello riconosciuto agli uomini; e ciò al fine di permettere lo studio e la libera sperimentazione sul pre-embrione stesso.
Il termine “pre-embrione”, accompagnato dall’indicazione del quattordicesimo giorno, è proprio solo un raffinato espediente linguistico per spostare in là rispetto al concepimento l’inizio della vita umana e consentire le sperimentazioni scientifiche su embrioni umani vivi in modo da legittimare la libertà della ricerca scientifica. [2]
Questo neologismo non è accettato dalla biologia, la quale invece constata che dal primo unirsi dei gameti c’è un individuo che si sviluppa in modo graduale e continuo. A detta di molti uomini di scienza, infatti, la parola pre-embrione è solo un escamotage per giustificare le manipolazioni genetiche. Jérôme Lejeune, il genetista che scoprì la sindrome di Down, ad esempio, definì il pre-embrione un “neologismo inutile”:
Il termine pre-embrione è inutile sotto il profilo scientifico perché prima dell’embrione non ci sono che l’ovulo e gli spermatozoi e fino a quando non avviene la fecondazione non esiste nessun nuovo essere. Non vi è un pre-embrione perché l’embrione è per definizione la forma più precoce di una creatura. Il miracolo della vita è proprio nel fatto che ognuno di noi viene da una sola cellula, l’uovo materno fecondato dallo sperma paterno, che contiene in potenza il fegato, i polmoni, il cuore e il cervello. E questo è un embrione e non un pre-embrione. [3]
Dunque è evidente che il termine pre-embrione è stato coniato per giustificare la manipolazione e la distruzione degli embrioni.
La scienza dell’embriologia ha origini antiche. Si pensi infatti che il filosofo Aristotele scrisse un trattato di embriologia, il De Animalibus, nel quale ipotizzava che l’embrione si sviluppi da una massa informe avente origine dal sangue mestruale dopo l’attivazione da parte del seme maschile.
Tuttavia, a causa delle scarse conoscenze, fino all’epoca medievale non era ancora chiara la distinzione tra embrione e feto.
Sarà Leonardo Da Vinci ad effettuare per la prima volta disegni accurati di uteri e feti; in seguito, nel 1651, il professor Girolamo Febrici d’Acquapendente studiò per la prima volta embrioni di diverse specie animali e scrisse il primo trattato di embriologia comparativa fornendo la rappresentazione migliore (fino a quella data) dell’utero in gravidanza e della placenta, descrivendo l’anatomia del feto e delle membrane fetali nell’uomo e in diversi animali.
Al di là dei progressi scientifici, che nel corso dei secoli hanno permesso di far luce sull’evoluzione dell’embrione all’interno dell’utero materno, permane l’urgenza di chiedersi se interrompere una gravidanza sia eticamente accettabile.
Secondo il senso comune, specialmente se forgiato sulla morale cristiana, l’aborto è un omicidio a prescindere dal momento in cui viene effettuato. Che si parli di embrione o feto non importa: per la religione cristiana anche gli organismi ai primissimi stadi dello sviluppo embrionale sono intrisi della stessa dignità che si è soliti attribuire ad un essere umano in carne ed ossa.
Nel cristianesimo, infatti, l’aborto viene condannato a partire da uno dei testi più antichi, la Diadaché [4]. Al punto II del capitolo IV si attesta che
coloro che sopprimono con l’aborto una creatura di Dio sono degli assassini. [5]
L’aborto viene denunciato anche nella Lettera di Barnaba [6]:
non ucciderai il bambino con l’aborto e non lo farai morire appena nato.
In generale i primi cristiani erano contrari all’interruzione della gravidanza. Tertulliano, infatti, disse:
l’aborto è un omicidio anticipato perché è già vivo colui che lo sarà. Tuttavia è una necessità se il feto costituisce un pericolo per la vita della madre. [7]
Di conseguenza possiamo ritenere l’aborto un crimine meno grave dell’omicidio quando è in pericolo la vita o la salute della partoriente?
Questa domanda incontra il problema di fondo dell’ammissibilità o meno della pratica dell’aborto: qual è lo stato giuridico del futuro nascituro?
Nell’ordinamento giuridico vigente, il presupposto logico – giuridico della tutela di un soggetto è la sua esistenza che coincide con l’acquisto della capacità giuridica […]
Certo è, come evidenziato dalla migliore dottrina, che il nascituro ha “la speranza di divenire persona” e, pertanto, può essere tutelato quale connotazione della persona intesa dinamicamente, ovvero quale “tutela della vita nascente”. Ad ogni modo, il concepito è punto di riferimento di norme giuridiche ma, invero, difficilmente può essere definito “persona”, in senso tecnico – giuridico, senza ovviamente, alcun giudizio di valore etico o morale nell’affermazione in parola. [8]
Judith Jarvis Thomson, filosofa americana ispiratrice della cultura femminista, ha sostenuto che il vero tema da discutere è il seguente:
non importa se l’embrione o il feto siano o no persona, anzi, anche se lo fossero a pieno titolo, sia moralmente che giuridicamente, ci sarebbero comunque circostanze in cui la donna potrebbe avere ottime ragioni per decidere di interrompere la gravidanza. A favore di questa scelta ci sarebbero i danni che la donna potrebbe subire in seguito alla prosecuzione della gravidanza. [9]
La prospettiva di Thomson sposta l’attenzione dalla considerazione ontologica della vita umana al piano del rapporto donna-embrione o donna-feto. La diatriba riguarda il concreto esercizio della libertà di scelta, nel senso che la valutazione di quanti e quali siano i danni che giustifichino una scelta abortiva è praticamente impossibile da fare a priori: impossibile tenere conto dei margini ineliminabili di discrezionalità e di variabilità individuale. Il legame donna-feto va interpretato e letto caso per caso alla luce degli interessi in gioco. Per questo motivo una legge non può prevedere l’infinita varietà di situazioni conflittuali in cui una donna decide di interrompere una gravidanza non desiderata né può affidare ad autorità esterne una scelta le cui conseguenze immediate ricadono in primo luogo su lei stessa.
A questo punto la discussione filosofica generale, così come il diritto e la filosofia morale, si fermano perché non possono prevedere e fornire prescrizioni adeguate per tutte le possibili situazioni concrete.
Certo, il carattere coercitivo della legge è essenziale: cerca di evitare la presenza di aborti senza futili motivi consegnando alla donna una libertà non arbitraria e capricciosa ma carica di responsabilità. Innanzitutto la responsabilità di discernere le reali circostanze in cui si è determinata e viene vissuta la gravidanza; in secondo luogo la responsabilità di emettere un giudizio ponderato sui fatti, assumendo una decisione coerente con i propri valori.
Probabilmente il senso comune di molti, specie se permeato di dottrina cattolica, non riuscirà facilmente ad accettare la tesi sopra esposta soprattutto per la strana novità con cui la medicina si manifesta ai nostri giorni: durante millenni le pratiche mediche avevano come scopo lottare per la vita e la salute contro la malattia e la morte. Oggigiorno, invece, assistiamo ad una inversione di rotta e per tale ragione l’aborto potrebbe essere interpretato semplicemente come conseguenza di un’azione egoistica generata da una non adeguata educazione sessuale.
Verosimilmente non esiste una risposta univoca ed universale sull’eticità o meno della pratica abortiva: non si tratta solo di relativismo gnoseologico, giacché non siamo davanti a dei semplici giudizi estetici, quanto piuttosto della capacità di scelta di ogni singola madre potenziale davanti all’evento che più di ogni altro le cambierà la vita. Nascere o non nascere? Il dilemma amletico, qui parafrasato sotto mentite spoglie, è certamente il punto interrogativo di moltissime donne gestanti come la protagonista del libro di Oriana Fallaci:
vuoi essere restituito al silenzio? Non puoi mica parlarmi. La tua goccia di vita è soltanto un mondo di cellule appena iniziato. Forse non è nemmeno vita ma possibilità di vita.
Nulla è peggiore del nulla. Il niente è da preferire al soffrire? Concludo che soffrire sia da preferirsi al niente. E se allargo questo alla vita, al dilemma nascere o non nascere, finisco con l’esclmare che nascere è meglio di non nascere. [10]
Note
[1] Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, Bur Editore, Roma 1975, p. 1.
[2] S.F. Gilbert, Biologia dello sviluppo, Zanichelli, Bologna 2005, p. 83.
[3] Jérôme Lejeune, L’embrione segno di contraddizione, Libreria Editrice Vaticana, Roma 1992, p. 21.
[4] Diadaché o Dottrina dei dodici apostoli. Si tratta di un’opera anonima. probabilmente scritta in Siria tra la fine del I e l’inizio II secolo. Il testo sarebbe contemporaneo ai libri più tardivi del Nuovo Testamento.
[5] Giuseppe Visonà, Didaché, Edizioni Paoline, Milano 2002, p. 47.
[6] Di autore sconosciuto vissuto ad Alessandria di Egitto tra la fine del I e l’inizio del II secolo.
[7] Tertulliano, Apologeticum 9.8, Mondadori, Milano 2006.
[8] A. Bianchi, Diritto civile. La norma giuridica e I soggetti, Giuffré, Milano, 1993.
[9] J.J. Thomson, A Defense of Abortion. Philosophy and Public Affairs 1:1 (Autumn 1971).
[10] Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, p. 16.
se non si è mai in grado di stabilire un giudizio etico universale poiché l’etica della società individualista è divenuta un fatto privato, allora l’etica come argomento non esiste;
anche in questo caso, con riferimento alla tesi della thomas, mi sembra un controsenso che l’autore affermi che spostando la prospettiva di analisi sul rapporto donna (individuo)-feto la filosofia si debba fermare; sulla base della consuetudine vigente, la morale, l’etica, mi sembra di poter affermare che la soppressione di un individuo sia un fatto universalmente non accettato come eticamente accettabile
nella fattispecie dunque, il biologo, cioè la scienza, quindi il metodo (per porre dei punti fermi con cartesio) ci propongono le basi per una sintesi: l’embrione è un individuo unico e irripetibile, l’aborto gli impedisce di sviluppare la sua potenza, cioè di divenire una persona unica e irripetibile, pertanto l’aborto è soppressione di individuo e di conseguenza ricade entro una casistica eticamente ben precisa, come detto sopra
l’aborto è eticamente connotato, ogni ragionamento in cui ci si imbatte riguardo la sua valutazione etica quindi, di fatto, non è mai finalizzato a esprimere veramente un giudizio etico, ma a riconnotarlo con sofismi per sottrarlo alla sua dimensione che lo condanna inesorabilmente come soppressione di un essere umano
questa è l’etica; poi c’è il nomos, la legge degli uomini, ed allora la ragione si fa pratica e non è affatto detto che tutto ciò che non è etico, non sia permesso
sono cose vecchie, pasolini l’aveva già detto: va bene permettere l’aborto, ma contesto che per permetterlo si deresponsabilizzi l’individuo astraendolo con la dialettica dalla sua significanza oggettiva
l’individuo-dio della thomas può abortire, ma deve essere consapevole di uccidere una persona
il solo fatto che per compiere un certo atto si debba ridefinire (attribuendogli connotati che non ha) un certo atto, filosoficamente ci indica facilmente che tale atto è eticamente inaccettabile, poco c’entra la religione