Buoni fini e buoni mezzi
Buoni fini e buoni mezzi
Giu 09[ad#Ret Big]
La ricerca del bene ha da sempre impegnato i filosofi, fin dall’antichità: stabilire cosa avesse valore, cosa fosse più degno di essere desiderato, è sempre stata un’ambizione della ricerca filosofica. Nel passato questa ricerca partiva da basi metafisiche o religiose: si cercava cioè di comprendere cosa fosse buono partendo da una visione totale della struttura del mondo.
Solo in tempi recenti, a partire dalla fine dell’Ottocento, si è cominciato ad analizzare il bene prestando attenzione a elementi fino ad allora poco considerati, come il linguaggio comune.
Prendiamo la parola “bene”: essa può essere fondamentalmente usata in due sensi: o relativamente a un obiettivo, o in senso assoluto. Cerchiamo di chiarire questa distinzione con un esempio.
Supponiamo che io stia giocando a scacchi con un conoscente e che, ammirato, gli dica che gioca molto bene. È chiaro che questo non è un giudizio etico, sto semplicemente constatando che quando gioca raggiunge certi standard in fatto di abilità, di capacitò tecniche etc.
Immaginiamo ora che, in un’occasione successiva, io veda la stessa persona compiere un gesto particolarmente meritevole.
Potrei allora, per lodarlo, dirgli che si è comportato molto bene. Ora, nei due casi la parola è la stessa, ma è chiaro che il significato è profondamente diverso. Più precisamente, è il valore ad essere cambiato, ad essere di grado più elevato, assoluto.
Non solo: Ludwig Wittgenstein (1) ha altresì evidenziato come nei due casi varii il valore prescrittivo che si attribuisce alla parola “bene”.
Per inquadrare meglio questo concetto potrebbe essere utile cambiare – o meglio, invertire – il punto di vista nei precedenti esempi.
Supponiamo allora che il mio conoscente scacchista giochi in maniera maldestra, commettendo errori grossolani, e che io glielo faccia notare, dicendogli che sta giocando male. Egli potrebbe allora rispondermi di esserne a conoscenza, ma che la cosa gli sta bene: egli non è particolarmente appassionato, e non desidera applicarsi maggiormente al fine di migliorare.
Con lo stesso criterio, procediamo a “ribaltare” il secondo esempio: il mio conoscente ha compiuto un’azione particolarmente disdicevole, meschina e immorale. Come sopra, glielo faccio notare, dicendogli che si è comportato molto male. Ora, è intuitivo che, in questo secondo caso, non sarebbe accettabile una risposta come quella del caso precedente. Vale a dire, una risposta del tipo: «Sì, sono cosciente di essermi comportato in maniera immorale, ma la cosa non mi disturba, non sono particolarmente interessato a migliorarmi e non voglio fare sforzi in tal senso».
Quest’ultima risposta non sarebbe accettabile perché le persone dovrebbero desiderare di comportarsi bene. Il bene, usato in senso etico, ha un valore normativo, prescrittivo.
Fin qui, abbiamo visto degli esempi pratici: potremmo provare ora ad astrarre una teoria generale: potremmo dire che “bene” nel primo senso è relativo ai mezzi (se una cosa è “bene”, è funzionale ad un obbiettivo), nel secondo è relativo ai fini (se un fine è “bene” sarà desiderabile, avrà valore intrinseco). (2)
Per concludere, potremmo avere la curiosità di chiederci se possa capitare che, nella storia, ci siano degli “spostamenti semantici”, e se qualcosa che originariamente era considerato un buon mezzo, sia in seguito un buon fine; senz’altro questo è capitato, e John Stuart Mill ce ne fornisce (a suo giudizio) un esempio, riguardante il denaro:
Che dire, per esempio, dell’amore per il denaro? In origine non c’è nulla di desiderabile nel denaro […]. Il suo valore sta unicamente nelle cose che si possono comprare […]. Eppure, non solo l’amore per il denaro è una delle più potenti forze motrici della vita umana: il denaro è anche desiderato in molti casi in sé e per sé. (3)
Si noterà che tutti gli esempi e le riflessioni qui proposte hanno un tratto comune: l’analisi del linguaggio (anche di quello più comune) in relazione con l’etica. Questa connessione non è affatto contingente e, dai Principia Ethica di George Edward Moore, costituisce uno dei capisaldi della riflessione etica moderna.
Note
(1) Cfr. Ludwig Wittgenstein, Lezioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Milano: Adelphi, c1967.
(2) Tipicamente, questo è uno dei punti più dibattuti: ad esempio, i moralisti deontologi rifiutano una distinzione così netta fra “fini” e “mezzi”.
(3) John Stuart Mill, Utilitarismo, Bari: Editoriale universitaria 1974.