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“Animali che dunque siamo”: l’antispecismo debole di Leonardo Caffo (1)

“Animali che dunque siamo”: l’antispecismo debole di Leonardo Caffo (1)

Ott 09

 

Oggi ci si imbatte spesso nel termine “antispecismo”, talvolta usato in modo poco accurato data anche la vastità dell’argomento: che se ne parli è comunque un merito del diffondersi di una maggiore sensibilità verso le questioni di filosofia animale. Questo breve scritto intende prendere le distanze da fanatismi e mode che possono inquinare una riflessione a cui non possiamo più rinunciare.

Leonardo Caffo propone un modo nuovo di fare antispecismo: il titolo del testo su cui vorrei porre l’attenzione, Il maiale non fa la rivoluzione. Manifesto per un antispecismo debole del giovane studioso e attivista contiene già in nuce un primo aspetto chiave della riflessione ivi esposta: l’antispecismo deve essere teoria e pratica di liberazione animale e si definisce per contrasto da ogni altro movimento di sovversione dell’ordine sociale esistente, proprio perché l’oggetto di tale opera di affrancamento non può difendersi da sé: gli animali non umani non si possono opporre alle barbarie che subiscono ed è esattamente da essi che bisogna muovere un’autentica riflessione antispecista. Volgere cioè senza infingimenti e maschere e tener fisso lo sguardo sugli occhi di quei miliardi di mucche, polli, maiali, conigli, pesci, ermellini, visoni, foche, balene e così via, che per capricci e usi consolidati dell’uomo sono costretti a subire in ogni istante violenze indicibili e a morirne, depauperati di quella vita di cui anche loro sono espressione.

Il fatto che gli uomini abbiano racchiuso nella stessa unica parola (animale) un’immensa varietà di esseri viventi e senzienti con diversificatissime peculiarità, anticipa l’influenza di quella impostazione teoretica più grande dello specismo e comprensivo di esso che è l’antropocentrismo: l’animale umano ha scisso da sé ogni possibile legame con la naturalità di cui è parte e l’ha resa suo piedistallo su cui ergersi.

In particolare, leggendo il testo, emerge come l’obiettivo primario dell’antispecismo debba essere quello di porre fine non solo ad ogni forma di violenza istituzionalizzata nei confronti della vita animale (si pensi a quello che avviene nei settori del vestiario, dell’alimentazione, della sperimentazione, dello spettacolo, della caccia “sportiva”) ma anche e prima di tutto all’idea di poter disporre degli animali non umani per pratiche tutt’altro che necessarie: abbandonare l’idea che essi siano cioè delle “cose“, concezione frutto di quel paradigma di sfruttamento millenario e dominio sul mondo animale da parte dell’uomo.

Senza addentrarsi nelle questioni relative alla nascita dello specismo, è importante distinguere tra specismo naturale e specismo innaturale, per comprendere meglio a cosa si rivolge la proposta qui presa in considerazione. Mentre con il primo si indica quel collante per il quale individui di una specie sono portati per natura a creare legami con i membri della medesima specie perciò escludendone quelli di altre, con il secondo si designa quel sistema ideologico creato ad hoc e a posteriori dall’uomo per giustificare l’oppressione da lui esercitata sugli animali non umani e sul resto della natura per i propri fini. Come si può dedurre, è proprio quest’ultimo che bisogna abbattere alle fondamenta e secondo l’autore ciò è possibile in qualità di attivisti e prima ancora antispecisti; questo significa tra le altre cose adottare uno stile di vita ben preciso come ad esempio quello del veganesimo il quale – è bene sottolineare – è soltanto una e di certo non l’unica delle conseguenze pratiche che nascono dal sostenere quella filosofia di vita che è l’antispecismo.

Contestare che, anche nell’ambito di una simile condotta del singolo, l’impatto dell’uomo sulla vita animale e naturale non potrà mai essere nullo, è tanto ingenuo quanto superfluo e di questo ne è anche ben consapevole lo studioso. Secondo quest’ultimo il successo o meno di un siffatto movimento antispecista rimane comunque un’incognita, posto che esso deve “lottare da solo” e si fonda su una base teorica tanto salda quanto ancora acerba e in divenire: la vera forma di antispecismo, quella che pone in primo piano gli altri, dove gli altri sono gli animali non umani, non può né deve inglobare in sé altre istanze di opposizione al sistema sociale presente.

Nella tradizione letteraria precedente l’antispecismo risultava fondato su presupposti teorici che in ultima analisi lo accomunavano ai movimenti a sostegno delle minoranze sociali, finendo in tal modo anche per conferirgli più forza o attirare proseliti: per convalidare la tesi secondo cui non si può continuare a perpetrare l’uccisione e la sofferenza animale, ossia, si sosteneva che anch’essi sono simili agli uomini, e dunque meritevoli di attenzione e li si tutelava solo per un meccanismo di inclusione degli animali nell’insieme “uomo” opposto a quello “natura”, allo stesso modo per cui vanno tutelati quei soggetti umani ancora vittime di oppressione (per discriminazioni di sesso, razza, condizioni sociali, e così via).

In realtà, in tal modo si perviene ugualmente al fine di tutelare gli animali ma è compromessa l’autenticità di tale azione poiché è smarrito l’obiettivo primario (liberazione animale) e l’oggetto principale (animali non umani):

L’antispecista non deve, tuttavia, abusare della voce dell’animale senza nome di cui è testimone, ma è necessario che riesca a far emergere che la sua posizione non è “sua”; che non lotta per se stesso ma per gli altri, che rivendica per l’animale ciò che lui (forse) ha: il diritto a vivere, e a essere lasciato in pace [1].

La liberazione umana e quella animale possono essere legate da fattori e logiche simili ma non sono direttamente correlate, per cui l’una implicherebbe l’altra e viceversa. Infatti, l’autore invita a compiere un esperimento mentale tanto provocatorio quanto efficace, a domandarsi cioè se ci si batterebbe ancora per gli animali non umani se questo significasse la fine dell’umanità. Il senso di questa immagine sta nella consapevolezza ultima per la quale sradicare in toto qualsiasi forma di specismo naturale è utopistico e non pertinente pensarlo: ciò che si deve e può fare è sostenere e fare antispecismo come qualcosa di peculiarmente fine a sé – senza involgarirne la causa insinuando che esso implichi una sua presunta e illogica priorità sulle altre forme di tutela degli umani [2] – e orientato unicamente alla difesa dell’animalità.

È in virtù di ciò che l’antispecismo è debole, ma non per questo irrisorio o meno possibile.

 

Note

[1] L. Caffo, Il maiale non fa la rivoluzione. Manifesto per un antispecismo debole, Edizioni Sonda, 2013, Formato ebook, posizione 595.

[2] Si pensi alle accuse di voler tutelare “l’animale sopra l’uomo”.
 

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