Temi e protagonisti della filosofia

Epicarmo VI. Fortuna

Epicarmo VI. Fortuna

Feb 20

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La cittadinanza siracusana, già italiana nella magniloquenza da campanilismo un po’ ipocrita (elogiamo un concittadino famoso per autoelogiarci), dedica questi versi esagerati al paisa’ Epicarmo:

Di quanto sopravanza gli astri il grande
brillamento del sole,
di quanto sopravanza i rii la grande
forza del salso mare,
di tanto, dico, sopra tutti sta
in saggezza Epicarmo,
che incoronò la patria siracusia.

Più equilibrato e sincero il grandissimo poeta siracusano Teocrito, senza il quale le Sycelides Musae non avrebbero ispirato le Bucoliche a Virgilio. La morale dell’epigramma, che accenna alla statua di bronzo dedicata dai siracusani ad Epicarmo, è: Epicarmi sententiae aere perenniores.

Dora la lingua, come il trovator
di comedia, Epicarmo.
O Bacco, in bronzo invece che dal vero
a te l’ha dedicato
chi a Siracusa sta, città superba,
quale concittadino.
Di motti un mucchio infatti ebbe pei memori
di contraccambiarglieli,
ché motti utili al viver disse molti:
a lui un grande grazie.

Venendo ora alla solita gente del giro, nel Teeteto Platone accosta Epicarmo quale archegeta della poesia comica a Omero quale archegeta della poesia epica e stranamente lo annovera nel perenne eraclitismo del mito e del logos pre/antieleatico. Opzioni teoretiche a parte, in sede di stilistica il dialogo platonico, ovviamente non inventato ex nouo dall’ateniese, ha nei vivaci botta e risposta delle commedie epicarmee uno dei precedenti più illustri e per noi riconoscibili. A tal riguardo sono significativi due frammenti attribuiti ad Epicarmo in cui sembra di trovarsi nel bel mezzo di un dialogo platonico:

– Suonare il flauto è forse qualche cosa?
– Ma sì, assolutamente.
– Suonare il flauto è dunque un uomo? – Eh, no!
– Vedi allora: il flautista, cos’è? Chi
ti par essere, un uomo oppure no?
– Un uomo, certo. – Non ti pare dunque
che così avvenga pure per il bene?
Che esso, il bene, sia la realtà
per sé e che chi imparatolo lo sappia
allor diventa buono?
Come infatti è flautista colui che
ha imparato a suonare il flauto,
o danzator la danza, o intrecciator
l’intreccio, o similmente ogni tal cosa,
quello che vuoi, costui non sarebbe
l’arte, bensì l’artista.

Ma, per me, quanto faccio è necessario:
niun credo voglia pena né sventura.

L’autenticità dei passi però è dubbia: Diels, il grande editore dei frammenti dei presocratici, ipotizza che Dionisio II (autore egli stesso di uno scritto Attorno ai componimenti poetici di Epicarmo) abbia fatto inserire simili intermezzi dialogici durante rappresentazioni cui assisteva anche Platone al fine di onorarlo.

Venendo a frammenti meno incerti, il seguente attesta l’orgoglio epicarmeo per essere il puparo che tira i fili del dialogo:

Per quel che pria du’omin dicean bast’io sol.

Ma è anche già consapevole delle basse maree dialettiche:

Non appena finito s’è di dirlo,
ecco sembra di già non andar più ben!

Tornando alla questione platonica, pare che il megarico Alcimo, allievo di Stilpone, in polemica col platonico Aminta di Eraclea, abbia spacciato per autenticamente epicarmei calchi dei dialoghi platonici per avvallare un presunto plagio e fatto le pulci alle commedie per scovare anche vaghi precorrimenti dei dialoghi. Strano che un dialettico della scuola megarica abbia identificato la filosofia coi suoi aspetti più caduchi ed esteriori: le soluzioni positive e la veste letteraria. Sappiamo invece che la filosofia in senso stretto consiste nell’argomentare le soluzioni, di modo che sembra inverosimile che l’accuratezza analitica delle lunghissime catene socratiche fosse già presente in commedie che, per quanto sofisticate, dovevano comunque intrattenere senza annoiare. Comunque è innegabile che Platone abbia contratto un notevole debito letterario e non filosofico con Epicarmo.

Nonostante questa frequentazione di Epicarmo, Platone attinse stilemi per la composizione dei suoi dialoghi soprattutto da un altro siciliano, Sofrone. Costui, a differenza di Epicarmo, componeva mimi, non commedie. La differenza è notevole: il mimo, almeno ai suoi inizi, era un bozzetto realistico che rievocava in modo non grottesco scorci di vita vera: anche quando inclinava al riso, si avvicinava alla malinconia trasognata e condiscendente del Menandro maturo o di un Terenzio più che alla sguaiataggine folclorico-dionisiaca della commedia degli inizi, cui peraltro Epicarmo non indulse mai. L’onda lunga del mimo arriva fino al verismo di Giovanni Verga, ennesimo siciliano. Esso quindi si prestava meglio come modello in ordine alla collocazione delle logomachie socratiche nelle accattivanti atmosfere quotidiane dell’Atene della seconda metà del V secolo, rievocata con una precisione ed insieme un lirismo insuperabili da quel geniale scrittore che fu Platone. Un aneddoto riferisce che Platone amasse tanto i libri di Sofrone che alla sua morte essi gli fecero da cuscino.

Maledetta ironia, tu ci hai salvato dall’aridità della logica stoica.


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