METAFISICA LIBRO II, A ÉLATTON, POST 2
METAFISICA LIBRO II, A ÉLATTON, POST 2
Mar 12[ad#Ret Big]
Commentando il secondo libro della Metafisica nel post precedente ci siamo fermati alla citazione:
Ma che in realtà che vi sia qualche principio e che le cause degli enti non siano infinite (I) né in linea di successione, né (II) per specie, è chiaro.
Analizziamo oggi i vari argomenti portati da Aristotele a sostegno del primo e del secondo punto. Ricordo che la numerazione degli argomenti e dei temi non è di Aristotele ma solo per facilitare la nostra comprensione.
In sostegno del numero finito delle cause in linea di successione, punto I, Aristotele porta vari argomenti, analizziamo il primo:
(1) Infatti se vi sono intermedi fra i quali vi è un termine ultimo e un termine anteriore, è necessario che quello anteriore sia causa dei successivi. […] Dei termini infinti in questo modo e, in generale, di ciò che è infinito tutte le parti sono ugualmente a mezzo, fino a quella presente. Di conseguenza, se niente è primo, non vi è affatto alcuna causa.
Andando alla ricerca di una causa “verso l’alto” cioè dal più specifico al più generale, potremmo dire percorrendo la linea del tempo a ritroso, ma propriamente in senso assiologico ed ontologico prima che temporale, Aristotele individua che deve esserci un termine. Seguendo l’esempio dello stagirita, se infatti consideriamo una serie di cause ed effetti collegati in serie diremo che il primo termine della serie è causa del secondo e così via il secondo del terzo, fino all’ultimo termine. I termini medi della serie sono, singolarmente, causa dei successivi (eccetto l’ultimo che non è causa punto) solo in virtù del primo termine. Se infatti non ci fosse il primo termine nemmeno gli altri ci sarebbero. In una serie infinita è impossibile individuare il primo termine così non essendoci un primo nemmeno gli altri termini sono causa. Se infatti uno degli altri termini della serie fosse causa di se stesso allora esso sarebbe il primo termine della serie. Se i termini di una serie infinta sono causati ma non vi è un primo termine che inizia la catena causale ci troviamo di fronte a quella che Aristotele definirebbe come una contraddizione o quanto meno come un ragionamento fallace.
Questo argomento vale anche discendendo la catena causale, sì temporalmente, ma al solito assiologicamente ed ontologicamente. Aristotele scrive:
(2) Ma non è possibile procedere all’infinito neppure verso il basso. […] Infatti “questo deriva da questo” è in due modi […] <a> o come l’uomo dal mutare del fanciullo, <b> o come l’aria dal mutare dell’acqua. […] Ma sia nell’uno che nell’altro caso è impossibile procedere all’infinito. Infatti, degli enti che derivano nel primo senso, poiché sono intermedi, è necessario che vi sia un fine; invece quelli che derivano nel secondo senso ripiegano gli uni verso gli altri. Ché, la corruzione dell’uno è generazione dell’altro.
Aristotele individua due vie di mutamento: una verso una maggiore complessità (il fanciullo che muta in uomo, l’ignorante che studiando diviene sapiente), e una verso l’entropia e la dissoluzione (come il passare da un corpo vivo ad elementi semplici organici e quindi a componenti inorganici, o come la combustione del fuoco trasforma un corpo in gas e ceneri); a riguardo di questo argomento uno per tutti: L’eco della caverna di Franco Chiereghin, con particolare riferimento alla seconda parte.
Una variazione verso un fine nel primo modo porta comunque ad uno stato finale di completezza (secondo la definizione, esiste cioè lo stato di “uomo” come compimento della crescita del fanciullo) secondo Aristotele. Mentre il mutamento nel secondo modo, la dissoluzione di un corpo negli elementi semplici che lo compongono, non è comunque infinita, cioè non produce continuamente nuovi elementi ma avviene piuttosto che gli elementi si compongono in strutture per poi dissolvere successivamente queste strutture e ritornare agli elementi semplici di partenza, che sono sempre gli stessi.
Seguono altri cinque argomenti a sostegno della finitezza della catena causale nei due versi, essi sono però sono di difficile interpretazione a riprova della problematicità del secondo libro della Metafisica. Uno solo sembra più intellegibile e si riferisce al fatto che deve esistere un termine finale almeno se si considera esistere “il bene”, il quale è senza dubbio un fine per sé, così anche l’intelligenza che vuole conformarsi al bene agisce secondo uno scopo che è un fine in sé. Ne risulta che la catena causale ha un fine, o un numero di fini finito.
Segue un argomento a favore del punto II, cioè della finitezza delle cause secondo la specie. Aristotele scrive:
Ma anche se le specie delle cause fossero infinite per numero, neppure così il conoscere sarebbe possibile. Infatti, allora pensiamo di conoscere, quando conoscessimo le cause. Ma non è possibile percorrere ciò che di aggiunta in aggiunta è infinito in un tempo finito.
Se la conoscenza è conoscenza delle cause e le cause sono infinite, non è possibile, dato un certo lasso temporale finito qualunque, avere conoscenza della totalità delle cause. Quindi visto che la conoscenza esiste, allora il numero delle cause deve essere un numero finito. A questo riguardo può essere interessante il discorso kantiano sull’opera d’arte nella terza critica, ma questa è un’altra storia, dico questo solo per sottolineare la complessità di questo argomento e delle problematiche che apre.
Segue poi la seconda sezione del libro secondo della Metafisica, riguardante questioni di metodo. Vi è un richiamo a portare attenzione a ciò che è noto, in quanto non indagato, questione già espressa e più diffusamente nel primo libro (e quindi nei post precedenti). Seguono altre considerazioni di senso comune, sul dover impostare la propria metodologia di espressione in funzione dell’uditorio. Vi è poi un altro passo importante sulla differenza di metodologie di spiegazione. La scienza spiega e ha il suo metodo, la filosofia spiega ed ha il suo metodo, sembra una cosa palese ma non è sempre così. Questo è un tema che ha avuto grande fortuna nella storia della filosofia perché è un problema spesso sottovalutato dal senso comune.
Ad esempio noi possiamo considerare una equazione matematica e una previsione meteorologica. La meteorologia non è magia per nessuno, è una applicazione di una somma di metodologie provenienti da scienze differenti: statistica, fisica, matematica… Però nessuno si aspetta dalla meteorologia una risposta appartenente puramente all’ambito matematico. Un altro esempio: pochi sarebbero tranquilli nel definire la medicina solamente come un’arte, mentre è più tranquillizzante chiamarla scienza. A dispetto di ciò, e nel migliore dei casi, la medicina non può in alcun modo pretendere di avere una capacità di spiegazione e di risposta uguali a quella della matematica. Non necessariamente perché la medicina è fallace, ma magari perché una componente di indeterminatezza dipende dall’oggetto di studio, così per la chimica, la biologia, la statistica, la fisica astronomica e soprattutto quantistica. Se una scienza poi, come la medicina, deve potersi servire di varie metodologie che ammettono una componente di indeterminazione, allora la difficoltà di ottenere un risultato assolutamente preciso diventa altissima.
Aristotele dice che alla filosofia, a ragione del suo argomento, non può essere richiesta la precisione matematica. Per Aristotele l’esattezza matematica può essere richiesta a tutte quelle cose che non hanno materia, mentre già la fisica che sicuramente considera oggetti che hanno materia, non può avere esattezza matematica. La filosofia che comprende la fisica ma ha un oggetto ancor più generale il quale comprende comunque al suo interno la fisica o piuttosto l’ “ente” inteso come “ciò che è”, di conseguenza, non può avere soluzioni matematiche.