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Aristotele,Metafisica, libro 5°, significati dell’ “uno”, parte prima

Aristotele,Metafisica, libro 5°, significati dell’ “uno”, parte prima

Mar 11

Siamo giunti sin qui attraverso un percorso di commento alla Metafisica di Aristotele, siamo arrivati a trattare il libro Δ della Metafisica e, in quest’ultimo, abbiamo analizzato i termini del linguaggio comune che l’autore ha ridefinito in ambito filosofico con significati specifici. Proseguendo nella trattazione dovremmo prendere in considerazione i significati dell’ “Uno” e nascono ora diversi problemi riguardo la comprensione di questo tema. Nello specifico: ci troviamo di fronte ad un dizionario filosofico, ma possiamo considerare quelle che ci vengono date sin qui delle “definizioni” in senso stretto (termine tecnico estremamente specifico che per Aristotele significa una determinazione resa con “genere prossimo + differenza specifica”)? Oppure come dobbiamo considerare queste spiegazioni che ci vengono fornite?

Il libro Delta, che stiamo trattando ora, è fatto praticamente di sole determinazioni concettuali filosofiche, la sua collocazione è difficile, alcune voci prese come a sé stanti sono poco comprensibili se considerate separatamente dal resto della teoresi Aristotelica e per questo non lo si potrebbe considerare facilmente come un libro introduttivo da leggere prima degli altri. Di contro, le nozioni che vengono esposte nel libro Delta devono continuamente essere riprese in mano ogni qual volta nella Metafisica compaia un termine filosofico, con valenza appunto tecnica (pur magari essendo mutuato dal linguaggio comune), poiché, essendo la materia lapalissiana per l’autore, questi si riferisce, precisamente e sinteticamente, ad uno o più significati specifici del termine in questione espressi nel libro Delta. Questo mio ultimo capoverso è forse per molti didascalico poiché è lavoro praticamente normale coi testi filosofici confrontare continuamente fra loro parti precedenti con parti successive e viceversa, non c’è un inizio e una fine del testo ma solo continui rimandi all’interno di una teoria strutturata, di una argomentazione complessa che richiede molte specifiche per la sua esplicazione.

La classificazione di che cosa “si dica essere” l’ “Uno” è un punto di snodo di molte nozioni della teoresi aristotelica; la trattazione che ne viene fatta in questo punto della Metafisica è stata intesa in origine come una sorta di sintesi personale di Aristotele da avere sotto mano per tenere delle lezioni. Mancando la necessità dell’autore di esporre il tema con completezza e chiarezza ad un interlocutore, cosa che si sarebbe preoccupato di fare a voce nel momento opportuno, ci ritroviamo con una trattazione scarna e nozioni che ai neofiti potrebbero essere essenziali sono invece sparse in vari luoghi della Metafisica, ma anche in altri testi. Questo perché, lo ricordo, di Aristotele ci è rimasto soprattutto materiale destinato ai corsi tenuti per scolari da ritenere già introdotti in ambito filosofico e soprattutto a conoscenza della teoresi aristotelica (le opere destinate al “grande pubblico” sono andate quasi interamente perdute), probabilmente ci sono pervenuti i quaderni dello stesso Aristotele o qualcosa come i quaderni degli appunti che i suoi allievi prendevano a lezione, successivamente corretti dal maestro. Anche l’unità di questi testi esoterici è tutta da discutere, l’unità della Metafisica come opera è infatti posteriore di vari secoli rispetto al suo autore, i vari libri che la compongono sono da riferirsi a vari e diversi periodi della vita dello stesso Aristotele. Quello che ora cercherò di fare è un’operazione filosofica sul testo dell’autore molto comune, che ha come fine ritrovare nel testo dell’autore stesso (qui limitatamente alla Metafisica per brevità, anche se sarebbe giusto ampliare alle altre opere dell’autore in cui il tema viene evocato) una coerenza interna, individuando passaggi essenziali alla comprensione dello snodo problematico e vagliandoli fra loro.

Affrontiamo ora brevemente il problema dell’Uno, pur sapendo che questo è un passo verso la comprensione di ciò che sosteneva Aristotele ma non una trattazione definitiva e completa, soltanto un tentativo di ampliamento conoscitivo, tenendo presente che ciò potrebbe far emergere anche dei limiti della proposta aristotelica.

Per Aristotele l’Uno può avere innanzitutto due significati: 1) “per sé” e 2) “per accidente”.

Aristotele comincia a descrivere i significati dell’Uno per accidente perché sono derivativi e secondari rispetto a quelli dell’Uno “per sé” e per il medesimo motivo io inizierò a esporre i significati dell’Uno “per sé” perché sono fondamentali, invertendo l’esposizione dello stagirita. Innanzitutto andiamo a cercare i significati di “per sé” di cui vi è una definizione più avanti nel libro Delta.

“Per sé” ha differenti significati:

1) Primo fra questi Zanatta traduce essere la “quiddità “, tema che adesso vale la pena trattare, perché è già comparso nella Metafisica ma non in modo a mio avviso fondamentale e che da qui in poi però ritroveremo con frequenza e peso maggiori, è termine che ha preso valenza in ambito di interpretazione di Aristotele e nel nostro senso comune. La quiddità, per noi, fa riferimento a ciò che fa di una cosa quella cosa, cioè all’essenza, lo si usa ad esempio in frasi del tipo “aver compreso il quid della questione”, dove “quid” è la radice di “quiddità” e si riferisce al fatto di aver colto il nocciolo, l’essenza del discorso. Deriva dall’espressione latina: “quod quid erat esse” e cioè “ciò che la cosa è” ossia la sua essenza intesa come definizione quindi genere prossimo e differenza specifica. Ma, Zanatta precisa, di utilizzare questa traduzione perché la quiddità in Aristotele non è solamente definizione in senso stretto ma, in senso esteso fa riferimento sia al genere prossimo cui appartiene la cosa, sia, via via in modo sempre più universale, a tutti i generi remoti cui appartiene la cosa idealmente fino alla categoria. Le Categorie per Aristotele sono 10 e son i modi principali in cui si dice l’Essere, il quale, come ricorderemo dall’apertura del libro quarto “si dice in molti modi”, questi sono innanzitutto le Categorie. Le Categorie sono generi finali, appena sotto i generi sommi (che ricordiamo sono “Uno” ed “Essere”) non riducibili le une alle altre in alcun modo, all’interno delle quali si possono iscrivere tutti gli altri generi; ossia tutti i generi possono essere ricondotti ad una Categoria, così come ogni cosa può essere ricondotta all’interno di una specie ultima e quindi di un genere.

2) Ciò che sussiste nel “che cos’è della cosa”, quel “che cos’è” peculiare in Aristotele è il significato inteso come definizione in senso stretto. Ciò che è “per Sè” è inteso quindi nel senso della definizione, ma, in senso stretto (genere prossimo e differenza specifica) e non della quiddità (totalità dei generi più specifici o generali cui la cosa partecipa).

3) E’ “per sé” la cosa prima o la parte della cosa prima che viene determinata. L’esempio di Aristotele:

[…] l’uomo per sé è in vita, giacché l’anima, che è la cosa prima nella quale il vivere risiede, è una certa parte dell’uomo.

L’ “anima” è la cosa prima dell’uomo, senza la quale non sarebbe e la vita è parte essenziale dell’anima. Ricordo che “anima” è per Aristotele un termine filosofico specifico, il quale merita un trattato a parte e non è sovrapponibile con quello che noi intendiamo con anima. L’uomo, poi, oltre ad essere vivo è anche altro: tipo “bianco” accidentalmente, ma anche “razionale” essenzialmente. Essere vivo non rientra nell’essenza dell’uomo ma alla lunga è nella sua quiddità (che comprende animale, vivente e via via probabilmente fino alla categoria di “sostanza”, la prima delle categorie).

4) E’ per sé ciò che, Aristotele scrive: “non ha la sua causa in altro”. L’interpretazione dei critici e di Zanatta, a cui mi rifaccio, è che qui Aristotele si riferisca alla causa evidente e prossima della cosa in questione così dell’uomo è causa un altro uomo.

5)  Aristotele scrive:

Inoltre, <si dicono per sé> tutte le cose che appartengono ad un’unica cosa in quanto unica. Per questo ciò che è separato è per sé.

L’ultimo significato è espresso dallo stagirita in forma quanto meno brachilogica. Possiamo desumere in qualche modo anche attraverso Alessandro di Afrodisia che l’ultimo significato di “per sé” si riferisca a tutte le determinazioni che appartengono ad una cosa in quanto unica. Zanatta porta un esempio riferito a Kant (proveniente da un altro contesto) e lo riporto anche io per semplicità in quanto concordo: il cinabro (tipo di marmo) è “per sé” “rosso” e “pesante”.

Ora, quelli sopra esposti sono i significati di “per sé” e noi dobbiamo riferirci ai significato dell’ “Uno per sé”.

Sarà bene ricordare che nel libro quarto troviamo scritto:

Ora, se l’ente e l’uno sono la stessa cosa e una sola natura, per il fatto di conseguire l’uno all’altro, come il principio e la causa, non <lo sono> però come se fossero mostrati con un’unica nozione.

Come abbiamo già visto nei post precedenti “essere” ed “uno” sono concetti coestensivi. In altre parole  ogni cosa che “è” è anche un “uno”, questo probabilmente perché in senso lato l’ “uno” è determinazione. Aristotele, pragmaticamente, nella sua filosofia (oltre ad essere inserito nel contesto greco antico dove l’ordine e la proporzione erano espressione del giusto e del bello di contro all’indeterminato o caos che rappresentava il malvagio e il brutto) ha molto a cuore l’aspetto gnoseologico e la possibilità di una conoscenza scientifica che risulta fondata in primis sul principio di non contraddizione, il quale scongiura il relativismo fino anche nella forma del regresso all’infinito. La determinazione è, il più generalmente possibile, un limite che separa dal resto ipostatizzando una differenza su un qualche livello e quando qualcosa assume identità (determinazione) la assume in modo inscindibile dall’unità con se stesso, in cui è incluso il suo essere positivo (esistere). Nasce però un problema: questa medesima unità può avere più significati poiché un “uno” sono sempre sia “il tutto” sia “la parte”. Già da qui emerge che l’Uno, per Aristotele, non può fare riferimento ad esso stesso come determinazione poiché si scadrebbe in un regresso all’infinito nel rincorrersi di “tutto” e “parte”. Deve esserci una determinazione originaria e fondamentale dell’ “uno” al di là del suo partecipare a qualcosa di determinato, un “uno” determinato in senso del tutto generale e che sia generativo e individui tutte le determinazioni che possono nascere in tutte le cose possibili, ma senza parteciparne. Senza un principio generativo ogni cosa potrebbe essere suddivisa ulteriormente in parti o riunita successivamente in un tutto più estensivo causando regresso all’infinito in entrambe le direzioni e nel regresso all’infinito indeterminatezza e quindi nel relativismo e nell’impossibilità di una conoscenza scientifica.

Sempre dall’ultima citazione ricaviamo che “uno” ed “essere” sono coestensivi ma l’  “essere” non è intensivamente sovrapponibile all’uno come intensione, a livello gnoseologico infatti l’ “essere” contiene molte più note al proprio concetto rispetto al concetto di “uno” che risulta invece più povero.

Nella settima aporia del secondo (Beta) Aristotele ragiona su quali debbano essere considerati come principi fra i generi, se i generi sommi o i generi più comuni. Rispondendo a questa domanda ne emerge anche che i generi sommi non sono appunto da considerarsi alla stregua degli altri generi. Troviamo scritto:

 Tanti, dunque, saranno i principi degli enti quanti sono i generi primi, per cui l’essere e l’uno saranno principi e sostanze, giacché soprattutto questi si dicono di tutti gli enti. Ma non è possibile né che degli enti vi sia un unico genere, né che esso sia l’uno né l’essere. Infatti, è necessario sia che le differenze di ciascun genere si diano, sia che ciascuna sia una,  ed è impossibile o che le specie del genere si predichino delle loro differenze, o che il genere si predichi senza le sue specie. Per cui, se l’Uno o l’essere saranno un genere, nessuna differenza né esisterà, né sarà un uno.

“Essere” ed “uno” non possono essere generi perché fondamentalmente il genere non può predicarsi delle differenze. Il genere è negli enti che lo compongono, cioè il genere degli “animali” è rappresentato in tutto e per tutto dall’insieme degli animali, così come il genere dei triangoli è rappresentato dall’insieme dei triangoli che costituisce materia intelleggibile piuttosto che sensibile. Banalmente il genere dei “triangoli” non è rappresentato dalle istanziazioni dei “cavalli” e ogni genere si predica dei suoi appartenenti. “Animali” e “triangoli” sono generi differenti e sono istanziati dagli elementi che rispettivamente gli appartengono, mentre se prendessimo come genere l’ “uno” allora sarebbe inclusivo di ogni ente e quindi ogni differenza cadrebbe a livello gnoseologico.

Se analizziamo i significati di “genere” (che troviamo proseguendo nel libro Delta) e ci soffermiamo su quelli che possono interessare la nostra trattazione troviamo scritto:

Inoltre, come la <determinazione> prima, presente nelle nozioni, che si dice nel che cos’è: questa è il genere, le cui qualità sono dette differenze.

[…] Si dicono diverse per genere le cose di cui è diverso il sostrato primo e l’una delle quali non si risolve nell’altra, né entrambe in una medesima cosa: per esempio la forma e la materia sono diverse per genere, tutte le cose che si dicono secondo una diversa figura categoriale dell’essere, giacché alcune fra le cose esistenti significano che cos’è, altre la qualità, altre <significano> come si è distinto in precedenza. In effetti queste <determinazioni> non si risolvono l’una nell’altra né in in alcunché di unico.

“Essere” ed “uno” sono coestensivi e potrebbero essere considerati quasi intesivi anche secondo la nozione, ma i generi sono differenti, è proprio la differenza che crea la definizione e separa un genere dall’altro. “Essere” ed “uno” non hanno differenza al loro interno poiché sono un unico e in un certo senso precedono la differenza, nell’ “essere” come totalità si risolvono tutte le differenze, nessuna esclusa e quindi in modo virtualmente infinito e illimitato, quindi lo stesso vale per l’ “uno”. Quello che noi possiamo fare è impostare una gnoseologia, stabilire delle basi, degli assiomi, dei fondamenti non ulteriormente discutibili, pur sapendo che tutti partecipano in qualche modo sia dell’ “essere” che dell’ “uno”.

“Essere” ed “uno” non hanno quindi la “differenza” al loro interno. Se non hanno la differenza al loro interno allora non hanno una definizione e quindi non sono generi. Poiché anche la differenza è un “essere” e un “uno” anche se non necessariamente un genere.

Ritorniamo allora ai significati di “per sé” e riferiamoli all’ “uno”. Riguardo alla quiddità non possiamo riferirci all’ “uno per sé” in quanto non ha generi prossimi, ricordo che il genere prossimo è sempre un insieme superiore e più capiente in cui da un contesto più particolare si passa ad uno più generale; ma non vi sono generi più generali o universali dell’ “uno” o dell’ “essere”. Riguardo alla definizione abbiamo visto che nell’ “uno” non c’è la differenza, quindi non possiamo parlare di questo significato dell’ “uno per sé”. Riguardo al terzo significato dovremmo analizzare in cosa consiste la parte prima dell’ “uno” ma rimane difficile poiché vorrebbe dire inserire in qualche modo delle differenze fondamentali e quindi dei sottogeneri all’interno dell’ “uno” e prima delle categorie, cosa impossibile, perché l’ “essere” (che è l’ “uno”) si dice in molti modi e in primo luogo secondo le categorie. Per quanto riguarda il quarto significato come “ciò che non ha la sua causa in altro”, questo è sicuramente uno dei significati dell’ “uno” “per sé”, esso non ha altra causa ma è sicuramente nozione poco informativa ma risponde anche alla possibilità precedente affermando che l’ “uno” è primo in sé ovviamente in modo totale e unitario. Invece l’ultimo significato può essere interessante, ci dovremmo riferire a delle nozioni che appartengono all’ “uno” perché l’ “uno” è unicamente così, cioè è un oggetto singolare con caratteristiche specifiche.

Quest’ultima possibilità è circolare in un modo che potrebbe essere accettato: non stiamo parlando di una definizione, ma stiamo parlando di attribuire in modo unitario all’uno alcune caratteristiche e quindi delle differenze che appartengono a generi derivati dall’ “uno”. A rendere unitaria questa serie di determinazioni è l’ “uno” stesso che partecipa ad ogni essere, mentre le determinazioni partecipano dell’ “uno” perché in senso generale ogni determinazione partecipa ai generi sommi. Queste nozioni poi non si articolano nella rigidità della definizione ma sembrano fondarsi in ciò che vedremo essere la “nozione”.

Nel libro settimo della Metafisica troviamo scritto:

Di conseguenza, l’essenza si dà <soltanto> di tutte quelle cose la cui nozione è una definizione.

Questo è un punto cardinale, sia perché non tutte le nozioni sono definizioni (e Aristotele, ad esempio, fa notare che non vi è una definizione dell’Iliade) ma più avanti troviamo scritto che la “nozione” come “definizione” si ha soltanto delle cose prime, fra queste sicuramente l’ “Essere” inteso come sostanza e quindi di nuovo usiologia, scienza della sostanza come tema di tutta la filosofia. Il problema è che l’essenza come definizione (che sarà trattata pienamente nel libro settimo) è gnoseologicamente successiva alla sostanza. In altre parole, il primo senso di ogni definizione è in riferimento alla sostanza, può essere poi in riferimento alle categorie secondo il loro ordine ma continua a non esserci una definizione di sostanza.

Zanatta arriva a dire che i quattro significati dell’ “uno” per sé possono essere visti come una essenza in senso stretto, nella loro totalità, in riferimento all’ “uno”. Ma non credo di poter avvallare questa tesi perché: essendo questi significati quattro e non uno (non esistono per Aristotele più essenze di un medesimo oggetto) e non riferendosi a genere prossimo più differenza specifica non possono esserlo. Dopo un consiglio anche con la redazione di filosofiablog.it e con Matteo Cosci che ringrazio moltissimo, sono portato a ribadire che “essere” ed “uno” sono generi sommi come afferma Aristotele già nel secondo libro della Metafisica. Essendo generi sommi nessun ente partecipa di loro, poiché gli enti partecipano dei generi e non dei generi sommi, inoltre, tornando alla fatidica frase “l’ente si dice in molti modi” dobbiamo sottolinearne la plurivocità; quelli che troviamo in Delta fra i significati dell’ “uno per sé” piuttosto che un’essenza dell’ “uno” fanno riferimento proprio al “cosa si dice” dell’ “uno”, quindi una visione già più vicina alla “nozione” che alla “definizione” ed è già un’indizio che ci porta verso l’esempio dell’Iliade intesa come oggetto singolare all’altro capo della determinazione gnoseologica rispetto ai generi sommi. Di più, quel “cosa si dice dell’uno per sé” deve far riferimento alla plurivocità dell’ “essere” che è l’ “uno” ma non può in senso assoluto gnoseologicamente accedere al genere sommo dell’ “uno” e darne una essenza. I significati dell’ “uno”  “per sé” si riferiscono, in ultima analisi, all’azione dell’uno che penetra già nei generi e parte assiologicamente dall’istanziazione gnoseologica dei generi stessi.

E’ questa una interpretazione che si trova di fronte ad un punto problematico, questo problema non è certo risolto, non significa quindi che io abbia senza ombra di dubbio battuto tutte le strade argomentative, ma chi voglia portare un’alternativa deve almeno inserirsi in questo dialogo e trovarne le pecche e successivamente fondare ulteriori ragioni poiché la filosofia non è solo una sequela di problemi perennemente aperti ma anche una difficile strada di soluzioni, magari non definitive, ma non per questo vuote.

Aristotele nomina quattro significati principali dell’ “Uno per Sé” che affronterò nel prossimo articolo, questi quattro significati non possono darne una definizione perché “essere” ed “uno” non hanno né un genere prossimo in cui iscriversi, né la differenza al loro interno. La mia soluzione è che queste siano caratterizzazioni universali scelte fra altre possibili, le quali sono gnoseologicamente più pregnanti, anche perché l’impossibilità di definire l’ “uno” in senso stretto non ne oblitera la possibilità di farne un discorso razionale a riguardo, la definizione nel caso dei generi sommi è infatti sostituita dalla “nozione”. Mentre i significati dell’ “uno” per accidente possono riguardare la partecipazione all’ “uno” di ogni cosa e ogni determinazione, quelli dell’ “uno” per sé non possono definirlo ma devono darne nozioni appunto il più generali possibile che si possano reperire a tal riguardo (ciò che si dice essere l’uno”), senza pretese di esaurirne la definizione o l’ambito.


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1 comment

  1. giuseppe

    “L’uno si dice in molti modi”, ma prima di dirsi si indica. Aristotele (e non Platone) è nel contempo il padre della metafisica della sostanza e della filosofia del linguaggio, in cui i vecchi e nuovi realismi tuttavia si muovono.

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