Detti di Aristotele in Diogene Laerzio (V, 17-21)
Detti di Aristotele in Diogene Laerzio (V, 17-21)
Set 19
17 Si attribuiscono, dunque, a costui anche bellissimi apoftegmi, questi qui. Richiesto di proferire che guadagno germina per i bugiardi, professò questo: «Legittimare la sfiducia eziandio quando dicono la verità». Quella volta che fu biasimato giacché aveva dato l’elemosina a un uomo vizioso, rispose alla provocazione: «Ho avuto pietà non della stortura, ma dell’uomo». Aveva la consuetudine di dire questo tanto agli amici quanto a coloro che frequentavano le sue lezioni, ognora e ovunque gli succedesse di discutere: che certamente la vista riceve la luce dall’aria circostante, però la psiche ce l’ha dalle scienze. Più volte, dunque, intento a protestare contro gli Ateniesi, li diffamava dacché avevano inventato frumento e leggi, ma usavano il frumento, e non le leggi.
18 Professò che, mentre le radici della paideia sono aspre, il frutto carpitone è dolce. Richiesto di dire che cosa invecchia svelto, professò: «La gratitudine». Richiesto d’indicare che cos’è la speranza, evocò: «Sogno di sveglio». Giacché Diogene gli dava un fico secco, pensando che, se non l’avesse preso, gli sarebbe venuta meglio una cria, presolo, disse che, assieme alla cria, aveva perso anche il fico secco; dunque, dacché gliene dava eziandio un altro, lo prese e lo tenne in aria; dunque, come si fa provocando l’infanzia, disse: «Magno giovigeno», e glielo ridiede. Professò che relativamente a una paideia futuribile s’abbisogna di tre condizioni: natura, apprendimento, esercizio. Avendo udito la fama che era stato messo in ludibrio da qualche soggetto moralista, disse: «Se è lontano da me, mi frusti pure». Leggeva la bellezza come una raccomandazione più sostanziosa di qualunque epistola. 19 Alcuni, invece, professano che fosse Diogene a dar voce a questo aforisma, mentre egli stesso avrebbe detto la bella forma dono di natura; Socrate, invece, la definiva tirannide di poco tempo; Platone fu dell’avviso che sia un privilegio di natura, Teofrasto un inganno silenzioso, Teocrito un danno elefantino, Carneade una regalità non scortata da dorifori.
Richiesto di evocare ciò in cui i colti differiscono dagli incolti, disse questo: «Tanto quanto i viventi differiscono dagli estinti». Diceva che nei casi favorevoli la paideia dell’intelletto è ornamento, nei casi infausti, invece, rifugio. Tra i genitori, quelli che han istruito sarebbero più onorabili di quelli che son rimasti all’aver solo generato, siccome, mentre questi hanno procurato il vivere, quelli hanno procurato il vivere bene. Contro uno che si vantava giacché era proveniente da una megalopoli professò questo: «Bisogna non già rispettare questo, bensì essere qualificabile come degno d’una magna patria». 20 Richiesto di dire che cos’è l’amicizia, favellò così: «Una singola psiche accasata in due corpi». Diceva che alcuni della collettività umana risparmiano tanto, come se dovessero vivere eternamente, mentre altri spendono tanto, come se dovessero già morire. A chi interrogava sul perché riempiamo molto tempo frequentando i belli favellò così: «Questo è quesito d’un cieco».
Quando gli fu chiesto che genere di vantaggio mai fosse emerso per lui dalla filosofia, professò: «Questo: non obbligato, compiere quegli atti che alcuni compiono a causa della paura derivante dalle norme». Quando gli fu chiesto come i discepoli avrebbero potuto mostrare progressi, favellò così: «Qualora, seguendo quelli che hanno preminenza, non rimangano in attesa di quelli che vengon dopo». Ad uno assai ciarliero che, dopo averlo sommerso d’una piena vocale, gli disse: «Non è che ti ho infastidito, eh?», disse questo: «Per Giove, no: ecco, neanche ti prestavo attenzione». 21 A colui che lo accusava giacché sarebbe stato donatore d’un contributo a un uomo non buono – si riferisce, ecco, eziandio questo – favellò così: «L’ho concesso non a questo uomo, bensì all’umano». Quando gli fu chiesto di proferire come dovremmo trattare gli amici, professò questo: «Riferendoci a come desidereremmo che essi trattassero devotamente noi». Professò che la giustizia è una virtù della psiche che distribuisce la condizione articolandola conformemente al valore. Leggeva la paideia come il più bell’accesso offerto alla vecchiaia. Professa, dunque, Favorino, nel secondo libro dei Memorabili, che si rifaceva ogni volta a questa lezione: «Colui ch’è pieno d’amici non ha nessun amico»; d’altronde questo è eziandio nel settimo libro dell’Etica. Insomma, questi proferimenti son attribuiti a costui.
La traduzione è condotta sul testo dell’edizione critica di Marcovich:
Diogenes Laertius, Vitae philosophorum, ed. D. Marcovich, Lipsiae 1999.