ARISTOTELE: METAFISICA, LIBRO II: A ÉLATTON
ARISTOTELE: METAFISICA, LIBRO II: A ÉLATTON
Mar 05Il secondo libro della Metafisica di Aristotele è breve, per molto tempo si è dibattuto se appartenga o meno agli effettivi scritti di Aristotele o se stato scritto da un aristotelico antico. Ora questi dubbi sembrano fugati e lo si ritiene di Aristotele, anche se non sono certi ne il motivo della sua scrittura, ne la sua collocazione. In effetti il contenuto di A élatton aggiunge poco ad A mentre in parte dà per scontate molte cose, espresse con più compiutezza nel primo libro o nei successivi.
Questo libro si apre con delle considerazioni intorno alla verità e alle ricerca delle cause:
<Sosteniamo> che la ricerca intorno alla verità per un aspetto è difficile, per un altro è facile. Una prova è il fatto che né alcuno è in grado di coglierla adeguatamente, né tutti mancano di coglierla, ma ciascuno esprime qualcosa sulla sua natura, e se singolarmente nulla o poco contribuisce ad essa, da molti che si mettono insieme si origina una certa conoscenza. […] Come, infatti, gli occhi delle nottole stanno alla luce del giorno, così anche l’intelletto della nostra anima sta alle cose che per natura sono le più note di tutte.
In effetti proprio per il motivo enunciato da Aristotele nasce la difficoltà della ricerca della verità, dal fatto che essendo la verità propria della realtà (in una qualche misura che per il momento non discutiamo in quanto questo è di nuovo un paragrafo introduttivo), tutti naturalmente, in quanto facenti parte della realtà, comprendiamo parte della verità. Se non altro per il fatto che in linea di principio tutti gli uomini hanno i sensi e il primo tipo di conoscenza, il più elementare, è quello sensibile. Il problema è che questa conoscenza è un possesso spesso frammentario, non consolidato da alcun metodo e tutte le nostre conoscenze sono come delle isole quasi o del tutto staccate le une dalle altre. Una delle cose che crea più problemi allo sviluppo della conoscenza è la natura del “noto”, altro tema importante nella storia della filosofia. Spesso ciò che è noto, in quanto tale, risulta non indagato, non conosciuto (secondo un famoso adagio che sarà di Hegel, grande estimatore di Aristotele). Questo è vero su vari piani: infatti noi, ad esempio, utilizziamo ogni giorno dei trasformatori per caricare i nostri cellulari ma non abbiamo la minima idea di come funziona un trasformatore e così per moltissimi oggetti di uso comune. Prima del trasformatore tantomeno conosciamo il nostro cervello (o il nostro corpo) con cui pensiamo ogni cosa e svolgiamo ogni attività. Anche nel vivere fra la gente è lo stesso, spesso non abbiamo spiegazioni per molti dei nostri comportamenti, perché svolgiamo determinate attività in un certo modo piuttosto che in un altro, ci limitiamo perlopiù a degli usi e costumi tipici, tradizionali magari, ma la tradizione che dovrebbe contenere una storia, è spesso invece un punto fermo per la conoscenza, un vicolo cieco: “è tradizione (abitudine) che sia così” quindi non è più necessario sapere altro.
Continuando col testo possiamo avere ulteriori delucidazioni:
È corretto anche che la filosofia sia chiamata scienza della verità. Ché, il fine della <scienza> teoretica è la verità, mentre quello della <scienza> pratica è l’opera: infatti coloro che sono interessati alla scienza pratica, anche se studiano come stanno <le cose>, non indagano la causa per se stessa, ma per qualche fine e in un certo momento. Ma non conosciamo il vero senza la causa.
Quindi il vero è definito innanzitutto come la conoscenza di ciò che è causa rispetto a ciò che è causato. Sappiamo già che questo essere vero si può dire in quattro modi secondo le quattro cause. Inoltre vediamo che vi è differenza fra chi conosce una scienza pratica che ha un fine limitato cioè la realizzazione di un oggetto particolare, e chi possiede conoscenza teoretica quindi conosce le condizioni di possibilità perché venga in essere ogni oggetto particolare. Infatti Aristotele scrive:
Di conseguenza, è più vero ciò che per le cose che vengono dopo è causa del loro essere vere. Per questo è necessario che i principi delle cose che sono sempre siano massimamente veri: giacché non sono veri talvolta, né hanno qualche causa dell’essere <veri>, ma essi sono per le altre cose <causa della verità>. Di conseguenza, ciascuna cosa, quanto possiede di essere tanto possiede di verità.
Ciò che è causa prima è eterno in quanto deve generare sempre, nel tempo, tutti gli enti particolari. Gli enti particolari infatti sono transeunti, incorrono cioè in generazione e dissoluzione. In questo senso la causa prima eterna è “più vera” perché è non è esposta a mutamenti e quindi è più salda perché non varia e perché causa gli enti che mutano. Tutti gli enti che discendono dalla causa inoltre sono veri in funzione di quella causa. Esiste cioè una causa che è vera perché genera gli enti, gli enti quindi dipendendo da questa generazione acquisiscono verità, sottointeso è che non vi sono enti che non sono generati e quindi senza causa poiché questi sono per definizione cause prime. La conoscenza della natura delle cause prime sarà ogetto dei successivi libri della Metafisica. Per quanto riguarda il numero di queste cause e la possibilità di conoscerle Aristotele porta degli argomenti per sciogliere questo nodo:
Ma che in realtà vi sia qualche principio e che le cause degli enti non siano infinite (I) né in linea di successione, né (II) per specie, è chiaro.
Di questi argomenti parleremo nel prossimo post.
Non so se ne ho già parlato in altri post, comunque la ricerca di ciò che è “vero” filosoficamente è un campo minato. Aristotele infatti direbbe che il “vero” si dice in molti modi, come appunto l’“essere”. Noi infatti diciamo che uno stato di cose è vero quando corrisponde all’essere delle cose, ma anche le mie immagini mentali, i miei pensieri o rappresentazioni sono in qualche modo vere ad appartengono all’essere benché possano riguardare oggetti inesistenti come l’unicorno. Noi diciamo veri anche fatti avvenuti nel passato benché questi non siano più e benché non se ne abbiano prove inconfutabili, infatti diciamo che Napoleone fu un uomo corrisponde a verità, ma non lo sappiamo per certo, non ne abbiamo evidenze scientifiche, non abbiamo il suo corpo per eseguire una autopsia e confermarlo, né altre prove, perciò per quanto mi riguarda Napoleone potrebbe essere stato un robot o un alieno. Ciò ovviamente è controintuitivo e alieno in primo luogo al senso comune, era soltanto per fare un esempio. Noi poi diciamo anche che delle nostre congetture su oggetti che non esistono rispondono a verità, così nessuno direbbe che i numeri esistono come esistono le case e gli uomini, non di meno la matematica è comunemente ritenuta una scienza esatta che permette di costruire congetture ritenute vere riguardo alla realtà, così grazie alla matematica che parla di oggetti funzionali riesco a descrivere fatti che poi ritengo veri. Infatti se qualcuno ci chiedesse se la tensione dell’elettricità che arriva comunemente nelle nostre case sia di 220 Volt, tutti risponderemmo che è vero, ma la prova la otteniamo solamente attraverso uno strumento che misura la tensione attraverso principi fisici e matematici.
Possiamo quindi distinguere almeno tre modi di dire che le cose sono vere:
1) Secondo un criterio di corrispondenza: ad una nostra rappresentazione mentale corrisponde, in relazione almeno uno a uno, un determinato stato di cose nella realtà esterna alla nostra mente.
2) Secondo un criterio di concordanza: ad esempio stabiliamo che è vero il nostro modello di rappresentazione atomica degli elementi, almeno finché non avremo ulteriori evidenze scientifiche che ci permettano/costringano a cambiare questo tipo di rappresentazione. La rappresentazione nel frattempo corrisponde alla realtà? La risposta è: per le conoscenze di cui siamo in possesso al momento sì. Ma la rappresentazione è la realtà? La risposta è: no.
3) Secondo un criterio coerentista: ad esempio stabiliamo che Napoleone fosse un uomo e non un robot perché non vi è una ragione sufficientemente cogente per farmi dubitare di ciò, e questa spiegazione è quella più coerente con tutta la mia rappresentazione della storia, secondo la metodologia che ho usato nel trattarla.
Ovviamente questa distinzione apre più problemi di quanti non ne chiuda, c’è tutto il problema della gnoseologia o epistemologia (che in ambito anglosassone hanno un significato leggermente diverso, diverso è poi il significato secondo gli autori) ; infatti ciò che noi conosciamo è in qualche misura diverso e insieme somigliante con la realtà, ma non è di per sé la realtà. Anche il conoscere ha una dimensione di realtà ma il conoscere una male non significa che la mela esista nella mia allo stesso modo di una mela che esista nella mia mano o in un determinato periodo storico, eccetera, eccetera…
Probabilmente Aristotele non aveva di questi problemi poiché immaginava una natura intelligente e ordinata, come i greci in generale che chiamavano cosmo, cioè ordine, l’universo. Probabilmente per Aristotele vi è differenza fra conoscente e conosciuto come vi è differenza fra tutto e parte, ed in modo graduale. Nel senso che l’essere umano come parte del cosmo possiede parte delle sua verità ma non la totalità. Quindi per Aristotele era sufficiente spiegare come funzionava la conoscenza e da dove derivasse, la conoscenza poi era senza dubbio conoscenza di uno stato di cose realmente in essere. La conoscenza era inoltre tanto più profonda e vera e quindi vicina alla comprensione dell’Essere quanto questa si fosse avvicinata alle cause prime. Ovviamente la comprensione non è da intendersi con l’onniscienza, infatti conoscere le cause, soprattutto le più generali, non significa conoscere ogni istanziazione delle conseguenze; almeno perché l’essere umano conoscente rimane parte del cosmo e non esso stesso cosmo come totalità degli enti.