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ARISTOTELE: METAFISICA, LIBRO A; CAPITOLO 9; POST 4

ARISTOTELE: METAFISICA, LIBRO A; CAPITOLO 9; POST 4

Feb 27

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Continuiamo col commentario al capitolo 9 del libro A della Metafisica di Aristotele e con questo post abbiamo veramente finito il libro A.

Analizziamo quindi un altro argomento interessante che rispunterà qua e là nella storia della filosofia, il problema del punto, della linea, della superficie e del solido. Secondo i Platonici la linea e la superficie e il solido sono enti ideali che avrebbero dovuto trovarsi come intermedi fra le idee, intese come numeri, e i numeri matematici o reali. Infatti questi enti non possono essere di per sé Idee poiché non sono direttamente numeri, come ci ricorda Zanatta di cui sempre seguo la traduzione e il commento. Una piccola divagazione potremmo farla pensando a Kant e ricordandoci come nella Critica della Ragion Pura i numeri siano visti come base temporale (la successione dei numeri a priori è la condizione di possibilità del tempo), mentre la geometria come base spaziale, le figure della geometria sono infatti costruibili interamente a priori in modo puro (anche se il discorso è di molto semplificato). Così sembra che anche ai Platonici già risultasse impossibile ridurre la linea ad una misura o la superficie ad un numero, non era cioè possibile far coincidere le dimensioni spaziali coi numeri in maniera immediata, anche se magari le condizioni di possibilità dello spazio avrebbero meritato comunque di essere annoverate fra le Idee assieme insieme ai numeri, peccato che le Idee per i Platonici fossero proprio numeri e non qualcos’altro. Altro punto importante è rilevare che per lo stesso Platone (sembra che) il “punto” non fosse una entità geometrica ma una mera nozione o meglio una convenzione acquisita solo per comodità, priva di un reale fondamento; il punto veniva sussunto sotto la definizione di linea, però, mentre la linea era considerata divisibile, il punto no.

Ad ogni modo queste entità geometriche dovevano avere un principio e tale era lo stesso delle Idee cioè l’Uno e la Diade Indefinita formata da grande e piccolo. A specificare la Diade vi erano il lungo e il corto da cui i Platonici facevano derivare la linea ideale; il largo e lo stretto da cui facevano derivare la superficie ideale; il profondo e il poco da cui facevano derivare il solido ideale. Ora la linea è il limite della superficie e la superficie il limite del solido e quindi la superficie contiene la linea e il solido la superficie. Questo però per Aristotele è un problema perché tutti i principi di questi enti geometrici sono specie del grande e del piccolo pur rimanendo completamente differenti, non sono cioè iscrivibili l’uno nell’altro tali principi. Quindi i loro derivati tanto meno saranno contenuti l’uno nell’altro.

Procedendo nel capitolo 9 del libro A, Aristotele  ritorna sulla dottrina delle quattro cause. Come vedremo più avanti nello specifico “sostanza” per Aristotele si dice in più modi: nel primo senso sostanza è la forma che è l’essenza (ciò che una cosa è essa stessa e senza la quale non sarebbe) secondo la definizione (data secondo genere prossimo e differenza specifica); un secondo significato di sostanza è anche la materia; mentre il terzo significato di sostanza è l’insieme di materia e forma. I Platonici hanno individuato la causa formale o essenza delle Idee nel’Uno, esso quindi è sostanza. Vi è poi la Diade come causa materiale delle Idee. Per quanto riguarda la causa finale Aristotele descrive la natura come un principio intelligente che ha già in sé in modo immanente la sua finalità e questa determina il mutamento degli enti (e si vedrà anche questo più avanti nella Metafisica). In altre parole la natura non ha per Aristotele una causa finale esterna, invece i Platonici assegnano al Demiurgo la causalità finale. Il fatto di chiamare in causa l’azione del Demiurgo però, rileva Aristotele, (così come per la parusia riguardo la causa formale, vedi post precedente) non spiega niente, pone solo delle parole accanto a delle altre, o meglio questa sembrerebbe essere una spiegazione non filosofica, non argomentata.

Per quanto riguarda la causa motrice Aristotele analizza ancora l’Uno e la Diade dei Platonici, è questo un procedimento secondo un principio di carità che cerca di far valere la dottrina Aristotelica all’interno della dottrina platonica applicandovi i concetti della prima, ritenuti argomentativamente corretti, sulla seconda per provarne almeno in parte l’efficacia. L’Uno difficilmente è imputabile ad una causa motrice, mentre sembrerebbe molto più promettente la Diade, infatti “grande” e “piccolo” sembrano i principi di alcuni presocratici come “l’umido” e il “secco” o il “caldo” e il “freddo” e ciò potrebbe suggerire un passaggio di stato e quindi un mutamento. Ma se la Diade esprimesse il mutamento allora anche le Idee che vi derivano sarebbero in movimento, cosa negata dai Platonici, esse infatti sono principi immobili ed eterni per le cose sensibili.

A seguito vi sono poi le critiche aristoteliche a quella che viene chiamata l’ectesi dei Platonici. Il significato dato da Zanatta di questo termine è “esposizione”, porre fuori letteralmente secondo un significato etimologico. Per Aristotele il significato tecnico dell’ectesi era la conclusione di un sillogismo corretto. Secondo un significato meno tecnico possiamo riferirci al metodo dei Platonici di raggruppare via via predicati sempre più universali per arrivare alle Idee e sostanzializzarle in una specie di ascesa alla causa prima volta però alla fondazione delle Idee piuttosto che alla spiegazione degli enti reali. Così ad esempio possiamo sussumere tutti gli uomini sotto il carattere comune di “uomo in sé”, poi sussumere l’uomo e tutti gli animali sotto il carattere comune di “animale in sé”, quindi assieme agli oggetti potevano scorgere in questo insieme il carattere comune di partecipare all’ “unità in sé” e quindi all’Uno e di conseguenza alla “sostanza in sé”. Aristotele rileva che ciò non prova che tutti gli uomini partecipino all’ “uomo in sé”, piuttosto afferma che vi è un altro ente specifico cioè l’“uomo in sé”; inoltre dimostra che l’Uno e la sostanza sono qualcosa di comune al di là degli enti singolari, qui Aristotele pone la sua dottrina dei predicati universali. Aristotele obietta che tale ectesi è plausibile solo per le cose che fanno parte della stessa essenza, ma non delle cose che partecipano per accidente, così non possiamo risalire alla natura del “bianco in sé” partendo dalla partecipazione al bianco di Socrate su cui è stato versato un secchio di vernice, infatti Socrate è solo accidentalmente bianco (ovviamente anche di carnagione nell’esempio originale). Non vi sono infine idee dei relativi o delle cose che sono uguali solo per omonimia ma hanno forma differente, su queste non è infatti possibile eseguire l’ectesi dei Platonici e questo esempio negativo inficia la tesi di fondo secondo cui partendo da qualsiasi cosa è possibile risalire all’Uno in quanto causa di ogni cosa.

Vi è un ultimo argomento di Aristotele contro i Platonici che si presta a più interpretazioni. Aristotele scrive:

Inoltre, quelle cose dalle quali si dà sensazione come si possono conoscere senza avere la sensazione? Eppure lo si dovrebbe, se veramente gli elementi di tutte le cose sono i medesimi e da essi derivano tutte le cose, al modo in cui le voci composte derivano dalle <loro> proprietà elementari.

La critica può essere interpretata in questo modo: conoscendo i principi sovrasensibili delle cose sensibili dovremmo conoscere tutte le cose sensibili poiché derivanti tutte dagli stessi principi. E ciò è impossibile. Oltre al fatto che ciò implicherebbe un certo qual tipo di continuità fra le cose soprasensibili e quelle sensibili non determinando dove finisce la conoscenza tramite i sensi per divenire ultrasensibile. Poiché le Idee per i Platonici sono sovrasensibili, ma se gli oggetti sensibili sono formati dalle Idee poiché vi partecipano allora non si comprende quale sia l’attributo che rende sovrasensibili le Idee.

 


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