Aristotele, Fisica, I, 3
Aristotele, Fisica, I, 3
Feb 29[ad#Ret Big]
[186a4] E dunque, per coloro che proseguono in questo senso, appare chiaro che è impossibile [5] che gli enti siano uno [ton te dē tropon touto epoousin adünaton phainetai [5] ta onta hen einai], e non è difficile risolvere ciò a partire dalle cose che dimostrano [ex hōn epideiknüousi, lüein ou chalepon]. Entrambi infatti [gar], sia Melisso sia Parmenide, inferiscono eristicamente [eristikōs süllogizontai].
[10] Ebbene [men oun], è palese che [hoti] Melisso paralogizza [paralogizetai]: ecco, crede di poter assumere che, anche se tutto il generato ha principio, il non-generato non l’ha [oietai gar eilēphenai, ei to genomenon echei archēn apan, hoti kai to mē genomenon ouk echei]. Poi anche questo [eita kai touto] è assurdo: l’esserci principio di tutto [to pantos einai archē]. C’è principio del fatto, e non del tempo [tou pragmatos kai mē tou chronou], e d’una generazione, non della generazione [15] semplice, ma c’è anche principio di un’alterazione, non nel senso di un mutamento che avviene di colpo [geneseōs mē tēs [15] haplēs alla kai alloiōseōs, hōsper ouk athroas gignomenēs metabolēs]. Inoltre, perché immobile, se uno [epeità dia ti akinēton, ei hen]? Come infatti la parte che è una ‒ quest’acqua qui ‒ si muove in se stessa, perché non anche il tutto [hōsper gar kai to meros hen on, todi to hüdōr, kineitai en heautōi, dia ti ou kai to pan]? Inoltre, perché anche l’alterazione non potrebbe essere così [epeita alloiōsis dia ti ouk an eiē]? Peraltro neanche l’uno potrebbe essere tale nella specie, eccetto che se fosse ciò-da-cui [20] (e dunque alcuni dei fisici dicono ‘l’uno’ in questo senso, ma non in quello) [alla mēn oude tōi eidei hoion te hen einai, plēn tōi ex hou [20] (houtōs de hen kai tōn phüsikōn tines legousin, ekeinōs d’ou]: ecco, l’uomo è altro dal cavallo nella specie, e ci sono cose contrarie fra loro [anthrōpos gar hippou heteron tōi eidei kai tanantia allēlōn].
Anche contro Parmenide, dunque, il senso degli argomenti è lo stesso, anche se alcuni altri gli sono propri [kai pros Parmenidēn de ho autos tropos tōn logōn, kai ei tines alloi eisin idioi], e la dissoluzione avviene talora perché dice il falso, talaltra perché non conclude [hē lüsis tēi men hoti pseudēs, tēi de hoti ou sümperainetai]: da un lato, dice il falso in quanto [25] assume che ‘l’ente’ si dica semplicemente, pur dicendosi in molti sensi, dall’altro è inconcludente perché, anche se si assumesse che solo le cose bianche sono avendo il bianco un unico significato, nondimeno le cose bianche sono molte e non una [pseudēs men hēi haplōs [25] lambanei to on legesthai, legomenou pollachōs, asümperontos de hoti, ei mona ta leuka lēphtheiē, sēmainontos hen tou leukou, outhen hētton polla ta leuka kai ouch hen]. Infatti il bianco non sarà uno né nella continuità né nel concetto [oute gar tēi sünecheiai hen estai to leukon oute tōi logōi]. Infatti altro sarà l’essere come bianco e altro l’essere come ciò che si mostra bianco [allo gar estai to einai leukōi kai tōi dedegmenōi]. E non ci sarà, [30] oltre al bianco, nulla di separato [ouk estai [30] para to leukon outhen chōriston]: infatti qui non si parla di separato, ma del fatto che il bianco è altro da ciò a cui appartiene [ou gar hēi choriston alla tōi einai heteron to leukon kai hōi hyparchei]. Ma Parmenide non aveva ancora contemplato [oupō süneōra] ciò [touto]. Fu necessità, dunque, assumere non solo che ‘l’ente’ ha un unico significato nei confronti di ciò di cui può essere predicato, ma anche che è l’ente di per sé e l’uno di per sé [anankē dē labein mē monon hen sēmainein to on, kathouan katēgorēthēi, alla kai hoper on kai hoper hen]. Infatti il concomitante è collegato a un qualche sostrato, e così l’ente col quale fosse concomitante non sarà giacché sarebbe altro [186b] dall’ente [to gar sümbebēkos kathüpokeimenou tinos legetai, hōste hōi sümbebēke to on, ouk estai (heteron gar [186b] ou ontos)]: sarà allora un che di non essente [estai ti ara ouk on]. Dunque l’ente di per sé non sarà appartenente ad altro [ou dē estai allōi hüparchon to hoper on]. Ecco, l’essere stesso non sarà un qualche ente, se ‘l’ente’ non ha molti significati così da essere uno qualsiasi di essi [ou gar estai on ti auto einai, ei mē polla to on sēmainei houtōs hōste einai ti hekaston]. Ma si presuppone che ‘l’ente’ abbia un unico significato [hüpokeitai to on sēmainein hen]. Se quindi l’ente di per sé non è concomitante con niente, [5] ma le altre cose gli sono concomitanti, perché ‘l’ente di per sé’ dovrebbe significare l’ente piuttosto che il non-ente [ei oun to hoper on mēdeni ‒ sümbe[5]bēken alla <ta alla> ekeinōi, ti mallon to hoper on sēmainei to on ē to mē on]? Se, ecco, saranno lo stesso l’ente di per sé e bianco, ma lo sono l’essere come bianco e l’ente di per sé (infatti l’ente non è tale da essere concomitante col bianco, ed ecco che nulla è l’ente che non è ente di per sé), allora il bianco sarà non essente (non a mo’ di qualcosa che non è, ma non-[10]ente per intero) [ei estai to hoper on [tauta] kai leukon, to leukōi d’ einai mē estin hoper on (oude gar sümbebēkenai autōi hoion te to onˑ ouden gar on ho ouch hoper on), ouk ara on to leukonˑ ouch houtō de hōsper ti mē on, all’ holōs mē [10] on]. L’ente di per sé, allora, non è essente [to ara hoper on ouk on]; infatti era vero dire che era bianco, dunque esso non significava ‘ente’ [alēthes gar eipein hoti leukon, touto de ouk on esēmainen]. E così, anche se ‘bianco’ significa l’ente di per sé, comunque ‘l’ente’ significa più cose [hōste kai to leukon sēmainei hoper onˑ pleiō ara sēmainei to on]. Pertanto [toinün] l’ente non [ou] avrà neppure [oude] grandezza, se l’ente è preso per l’ente di per sé [eiper hoper on to on]: infatti per ciascuna delle parti l’essere sarebbe diverso [hekaterōi gar heteron to einai tōn moriōn].
Ma che l’ente di per sé si divida in un qualche [15] altro ente di per sé appare chiaro anche dalla definizione [hoti de diaireitai to hoper on eis hoper on ti [15] allo, kai tōi logōi phaneron]: ad esempio, se l’uomo è un ente di per sé, di necessità anche l’animale è un ente di per sé, ed anche il bipede [hoion ho anthrōpos ei estin hoper on ti, anankē kai to zōion hoper on ti einai kai to dipoun]. Infatti, se non saranno un qualche ente di per sé, allora saranno concomitanti o con l’uomo o con qualche altro sostrato, ma è impossibile [ei gar mē hoper on ti, sümbebēkota estai. ē oun tōi anthrōpoi ē allō tini hüpokeimenōi. all’ adünaton]: difatti si dice ‘concomitante’ questo [sümbebēkos te gar legetai touto]: o ciò di cui è ammissibile sia che esista sia che non esista [20], o ciò alla cui definizione appartiene ciò con cui è concomitante [ē ho endechetai hüparchein kai mē hüpar[20]chein, ē hou en tōi logōi hüparchei to hōi sümbebēken]; ad esempio, mentre lo star seduto è concomitante come separato, all’aquilino invece appartiene il concetto del naso col quale diciamo che è concomitante l’aquilino [to men kathēsthai hōs chōrizomenon, en de tōi simōi hüparchei ho logos ho tēs rinos hēi phamen sümbebēkenai to simon]. E poi, quanto alle cose che ci sono nel discorso definitorio o che derivano da esso, a questa definizione di esse non appartiene come inerente [25] la definizione dell’intero [eti hosa en tōi horistikōi logōi enestin ē ex hōn estin, en tōi logōi tōi toutōn ouk enü[25]parchei ho logos ho tou holou]; ad esempio, nella definizione del bipede non c’è quella dell‘uomo, o [en tōi dipodi ho tou anthōpou ē] quella dell’’uomo bianco’ in quella del ‘bianco’. Ebbene, se si hanno queste cose in questo modo [ei toinün tauta touton echei ton tropon] e coll’uomo è concomitante il bipede, di necessità esso è separabile, e così sarebbe ammissibile che ci sia l’uomo non bipede, o nella definizione del ‘bipede’ [30] ci sarà la definizione dell’’uomo’ [tōi anthrōpōi sümbebēke to dipoun einai, anankē chōriston einai auto, hōste endechoito an mē dipoun einai ton anthrōpon, ē en tōi logōi tōi tou dipodos [30] enestai ho tou anthrōpou logos], ma è impossibile: quello infatti è nella definizione di questo [ekeino gar en tōi ekeinou logōi enestin]. Ma se il bipede e l’animale sono concomitanti con altro e nessuno dei due è un ente di per sé, anche l’uomo potrebbe essere tra i concomitanti con uno di questi altri due, ma non sia mai che l’ente di per sé sia concomitante con alcunché e come si predica di entrambi [35] si predichi anche di ciò che deriva da essi [ei d’ allōi sümbebēke to dipoun kai to zōion, kai mē estin hekateron hoper on ti, kai ho anthrōpos an eiē tōn sümbebēkotōn heterōi. alla to hoper on estō mēdeni sümbebēkos, kai kathou amphō [35], kai to ek toutōn legesthō]; il tutto deriverebbe allora da individui [ex adiairetōn ara to pan]? [187a]
Dunque, si sono dati alcuni interpreti di entrambi gli argomenti [enioi d’ enedosan tois logois amphoterois]: quanto al primo argomento, si dice che tutte le cose sono uno, sempreché si assuma che l’ente ha un unico significato, però così il non-ente è [tōi men hoti panta hen, ei to on hen sēmainei, hoti esti to mē on]; quanto all’altro argomento, i suoi interpreti, a partire dalla dicotomia, han prodotto grandezze atomiche [tōi de ek tēs dichotomias, atoma poiēsantes megethē]. Appare però chiaro che non è vero che, se l’ente ha un unico significato e non è qualificabile [5] contraddittoriamente insieme alla sua negazione, il non-ente non sarà per niente [phaneron de kai hoti ouk alēthes hōs, ei hen sēmainei to on kai mē hoion te hama [5] tēn antiphasin, ouk estai outhen mē on]: infatti nulla vieta che vi sia non semplicemente il non-ente, ma il non-ente come qualcosa di non essente [outhen gar kōlüei, mē haplōs einai, alla mē on ti einai to mē on]. Peraltro è assurdo dire che, se non ci sarà alcunché di altro oltre all’ente stesso, tutte le cose si ridurranno a uno [to de dē phanai, par’ auto to on ei mē ti estai allo, hen panta esesthai, atopon]. Quale mente infatti potrebbe comprendere questo ente se non fosse un qualche ente di per sé [tis gar manthanei auto to on ei mē to hoper on ti einai]? Ma se è così, similmente nulla vieta che gli [10] enti siano molti, come s’era detto [ei de touto, ouden homōs kōlüei polla einai ta [10] onta, hōsper eirētai]. Orbene, è palese che è impossibile che l’ente sia un uno siffatto [hoti men oun houtōs hen einai to on adünaton, dēlon].