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Platone, Fedone (14)

Platone, Fedone (14)

Ott 17

Brano precedente: Platone, Fedone (13)

 

[84c] Quindi, dopo che Socrate ebbe detto ciò, ci fu silenzio per molto tempo, e Socrate stesso ‒ così pareva a vederlo ‒ era preso dal discorso proferito, e anche i più tra di noi; Cebete e Simmia però dialogavano tra loro a bassa voce. E Socrate, vedendoli, chiese: «Che c’è? Non sarà che a voi gli argomenti che si son fin qui argomentati sembrano carenti? Dunque… ecco: si hanno sì ancora molti sospetti e obiezioni, se qualcuno vuole percorrerli esaustivamente. Se quindi state esaminando qualcos’altro, non dico nulla; ma se c’è qualche impasse intorno a questi argomenti, voi non dovete per niente astenervi per scrupolo dal dirlo e [84d] dal discorrerne, se vi sembra che in qualche punto sian da argomentarsi meglio, e a ricomprendere anche me nel dialogo se credete che con me si faccia qualche passo avanti».

E Simmia disse: «Ebbene, Socrate, ti dirò la verità. Da un po’, ecco, ciascuno di noi due, essendo in impasse, pressa e spinge l’altro a domandare per il desiderio di ascoltarti, ma abbiamo scrupolo di procurarti noia, che sia per te spiacevole per la presente congiuntura».

Ed egli, udendo ciò, sorrise sommessamente e disse: «Ahimè, Simmia! Allora sarà affatto difficile che [84e] persuada le altre persone che non ritengo una cattiva congiuntura il presente caso, se non son capace di persuadere neanche voi, che dunque avete paura che sia più maldisposto ora che nella vita di prima; e, come si vede, vi sembra ch’io sia peggiore nella divinazione dei cigni, i quali, quando sentono che debbono morire, pur avendo cantato anche nel tempo precedente, allora cantano di più e nel modo più bello, gaudiosi perché stanno per andare presso il dio di cui sono servitori. Però gli uomini, per il loro timore della morte, affermano il falso anche sui cigni, e dicono che essi, lamentando [85a] la morte, cantano sotto effetto del dolore, e non si rendono conto che nessun uccello canta quando ha fame o ha freddo o si duole di qualche altro dolore, neppure l’usignolo, la rondine e l’upupa, dei quali però dicono che cantano lamentandosi per dolore. Ma mi pare che non [85b] cantino dolenti né questi né i cigni, ma giacché i cigni ‒ credo ‒ sono sacri ad Apollo, sono divinatori e, prevedendo i beni che son nell’Averno, cantano e son lieti in quel giorno, a differenza che nel precedente tempo. E dunque io stesso ritengo di essere compagno di servitù dei cigni e sacro allo stesso dio e, non meno di loro, di aver avuto da quel signore l’arte divinatoria e di poter alienarmi dalla vita non più scorato di loro. Ma è per questo che bisogna parliate e domandiate quello che volete sin quando gli Undici magistrati degli Ateniesi lo permettano».

«Dici bene». disse Simmia. «E io ti dirò ciò che [85c] mi crea impasse, e anche lui dirà in che cosa non accetta ciò che è stato detto. Ecco: a me sembra, Socrate, forse come anche a te, che intorno a tali argomenti vederci chiaro nella vita di adesso sia o impossibile o qualcosa di difficilissimo, e che, cionondimeno, non saggiare in ogni modo ciò che si dice intorno ad essi e non insistervi prima di esaurirsi abdicando all’esame di tutti i punti sia proprio di un uomo rammollito; infatti, riguardo a questi argomenti, si deve fare una di tali cose: o apprenderne il contenuto o trovarlo o, se questo fosse impossibile, assumendo almeno il migliore e [85d] il più inconfutabile tra i ragionamenti umani, viaggiando su questo come su una zattera, rischiando navigare attraverso la vita, sempreché uno non possa essere trasportato in sicurezza e senza rischio su un veicolo più solido quale un oracolo divino. E dunque anche ora io non avrò pudore a chiedere, poiché anche tu dici di far questo, e non m’incolperò, nel tempo posteriore, perché ora non ti dissi quel che mi sembra giusto. A me, ecco, Socrate, pare che ciò che si è detto, da quando lo esamino sia con me stesso sia con lui, non sia sufficiente».

[85e] E Socrate disse: «Forse, ecco, compare, quel che ti pare vero lo è; ma dimmi dunque dove non è sufficiente ciò che s’è detto».

«In questo», disse poi lui. «Dunque… nella misura in cui si può proferire questo stesso ragionamento anche riguardo all’armonia di lira e corde, dicendo così che l’armonia [86a] nella lira accordata ad arte è un che d’invisibile, d’incorporeo, di bellissimo e di divino, ma la stessa lira e le corde sono corpi di specie corporea, composti, terreni e congeneri col mortale. Quindi, quando uno abbia rotto la lira o tagliato e spezzato le corde, se si valesse dello stesso argomento di cui ti vali tu, argomenterebbe che di necessità quell’armonia c’è ancora e non è distrutta ‒ non ci sarebbe infatti alcun mezzo per far sì che ci siano ancora e la lira con le corde spezzate e le corde che sono di specie mortale e [86b] che invece si distrugga l’armonia che è di natura simile e congenere al divino e all’immortale, distruggendosi prima del mortale ‒, ma direbbe che è necessario che essa, l’armonia, ci sia di fatto ancora e che il legno e le corde imputridiscano prima che quella patisca qualcosa ‒ ed ecco quindi, Socrate, io credo proprio che anche tu stesso ti sia accorto che presupponiamo che l’anima sia pressappoco tale: come il nostro corpo è teso e tenuto insieme dal caldo, dal freddo, dal secco e da qualcosa d’altrettale, così [86c] la nostra anima è fusione e armonia di questi stessi enti, sempreché essi possano fondersi bene e con misura gl’uni con gl’altri. Se quindi si dà il caso che l’anima sia una qualche armonia, è chiaro che, allorquando il nostro corpo sia smodatamente rilassato o teso da parte di malattie o altri mali, di necessità la nostra anima è soggetta a distruzione immediata benché sia divinissima come anche le altre armonie che sono nei suoni e nelle opere degli artefici tutte e i resti di ciascun corpo permangano per molto tempo, [86d] sinché siano o combusti o putrefatti. Guarda quindi che cosa potremo dire contro questo argomento, nell’eventualità che uno sostenga l’assioma che l’anima, essendo fusione di ciò che è nel corpo, si distrugga per prima nella cosiddetta morte».

 

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