Temi e protagonisti della filosofia

Così interpretò Masini (2)

Così interpretò Masini (2)

Dic 21

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Articolo precedente: Così interpretò Masini (1)

Introduzione alla lettura di Ferruccio Masini, Lo scriba del caos. Interpretazione di Nietzsche, Il Mulino, Bologna 1978, pp.326

Ne Lo scriba del caos l’autore svolge una rigorosa analisi semantico-interpretativa di quei vocaboli attorno ai quali si annodano le molteplici linee del discorso nietzscheano, tra cui figura indubitabilmente la parola-chiave Übermut con il suo corrispondente greco hybris, “tracotanza”: pur essendoci un riferimento importante a quest’ultimo, Übermut non può essere semplicemente ridotto ad esso nella misura in cui la “prevaricazione” nietzscheana del cosmo che sempre diviene, scaturisce sì da sazietà, (kóros), da un’innocente quanto «imperiosa necessità di creare nuova vita» (p. 125), ma tale pienezza ebbra di sé si rovescia e-staticamente nel suo opposto, la povertà, la mancanza, il vuoto, per poi generare nuovamente e ricominciare. Questo gioco è innocenza ma anche oblio, fondamentale per reggere la lacerazione di ogni realtà e coincide con lo stato supremo del fanciullo (Io sono), che non è semplicemente una ripresa di quello eracliteo dal momento che abbraccia in sé tutto il dolore, la privazione, il negativo finalmente ricompreso, redento, non eluso.

Un altro termine su cui l’autore si profonde a lungo è Mittag, l’attimo del mezzodì che rappresenta l’accettazione dell’eterno ritorno in tutta la sua ambiguità: la metafora del Mittag sta ad indicare non «un nunc nella serie puntuale della successione temporale, bensì la trasparenza stessa di un’eternità, prefigurata nella volontà del ritorno» (p. 198) e rappresenta il momento in cui il ritmo esistenziale si accorda al tempo cosmico, non più storicamente inteso, ormai reinserito, proprio con e nonostante la sua intrinseca casualità, nella necessità del tutto. Il meriggio porta in sé la doppia valenza dell’eterno ritorno come eternità dell’assurdo e affermazione del mondo eternizzato, in quanto rispettivamente eterno trascendere ogni determinazione fissa di senso e -parafrasando una celebre frase di Nietzsche- sigillo dell’essere impresso al divenire medesimo, pienezza di una vita che si vuole e si eterna, pur tingendosi di un velo di “malinconia purpurea”, come nell’antica tradizione panica pagana.

«Nella gioia di Dioniso-Zarathustra […], il creante, l’amante e il conoscente si identificano e uomo-mondo-destino sono legati ad un unico nodo» (p. 208): Zarathustra è “l’uomo che diviene”, “colui che va oltre” (Hinübergehender), in cui si risolvono sia l’ “ultimo uomo”, che guarda al passato ammiccando, cioè tramando vendetta contro il così fu, e l’ “uomo più brutto”, l’assassino di dio, che in virtù del disprezzo che ha saputo provare, si distanzia da quest’ultimo in senso positivo («chi si disprezza è prossimo al superamento di sé (Selbstüberwindung): si trova cioè di fronte a sé come ad una totalità da farsi, come ad un nodo di nuove possibilità», p. 231) ed esce dal vortice del Widerwille (“contro-volere”), ossia del dolore del divenire. E’ così che dal caos si genera una stella.

In Zarathustra si realizza la conversione dell’ego-arbitrium in ego-fatum, la conquista della totalità del Tempo attraverso la volontà di ricreare l’irrimediabile “già stato” nel futuro: «con questo atto si svelle il passato dalla sua immutabile fissità, dalla sua pietrificata estraneità per farlo interno al volere medesimo […], tempo ed eternità celebrano la loro mistica unione nell’ “anello degli anelli”» (p. 241). E’ la riscoperta della capacità di trasformare le cose e gli eventi in un gesto mitopoietico di presa di possesso continua del reale, riconoscendo il valore del divenire quale negazione e superamento, costruire e demolire, saggiare e provare.

Nell’ultima parte del testo, l’autore focalizza la sua attenzione proprio sullo Zarathustra, la cui scrittura “metasemantica” rovescia il classico rapporto di forma e contenuto: «la certezza dei limiti e quindi dell’insufficienza della parola spinge Nietzsche […] a riplasmare la lingua rompendone i ceppi concettuali, intrecciandone nervo a nervo, costruendo un’armatura di immagini il cui alone semantico raggiunge nuovi piani di discorso» (p. 257). Lo stile, qui, diviene riproduzione di quella musica dietro le parole che costituisce ciò che davvero si comunica e si comprende nell’atto linguistico, attraverso sapienti effetti retorici; è “la mimesi ludico-ritmica della vita”. Poiché il pensiero «non è il prodotto di un’attività intellettuale oggettivantesi in una astratta concatenazione di determinazioni logiche, bensì scaturisce dalla profondità stessa dell’Erlebnis, si mescola al flusso sotterraneo della vita in una identità precategoriale e dinamica dei significati» (p. 260), la sua espressione deve riprodurne la stessa pienezza vitale. La parola scritta traccia il gioco di Dioniso che crea e distrugge, dicendo e lasciando non detto, mostrandosi e nascondendosi, ovvero si fa danza.


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