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Un’elegia introspettiva di Gregorio di Nazianzo (prima parte)

Un’elegia introspettiva di Gregorio di Nazianzo (prima parte)

Nov 20

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Ieri, dai miei tormenti tribolato,
me ne rimasi solo, via dagli altri,
in un ombroso bosco, il cor rodendomi;
ed infatti cotal rimedio amo,
nei patimenti: solo, con il mio
cuore comunicare silenzioso.
Ed aure sussurravano all’unisono
con augelli canori, con un bel
languor gratificandomi dai rami
pure nel cuore afflitto. Poi dagli alberi
le cicale dal petto melodioso
frinendo, amiche d’Elio, chiacchierine
facevan risuonar l’intero bosco.
Acqua fresca, di poco appresso, i piedi
lambiva, fluendo pian pel molle bosco.
Tuttavia io per me, dolor violento
subendo, rimanevo così e basta.
A quelle cose non badai, poiché
la mente, quando sia di doglie satura,
non vuole andare incontro a godimento.
E sol, la mente volta da un mulino,
tal lotta di parole opposte avevo:
chi fui, chi sono, chi sarò? Non so
ben, né chi più sapiente di me sia.
Ma sol, qua e là di nebbia ricoperto,
vago, nulla, neppur in sogno, avendo
di ciò che bramo. Tutti invero siamo
umili, siam raminghi, su cui fosca
nube di greve carne sta sospesa;
ma di me più sapiente è quel che più
degli altri la menzogna parolaia
del cuore inganna. Sono; spiega: questo
cos’è? Di me qualcosa è andato oltre:
altro ora mi presento, altro sarò,
se pur sarò. Fondato non è nulla:
io stesso son di rio fangoso flusso
che sempre avanza e nulla ha di stabile.
Perché allora mi chiedi questo? Insegnami
piuttosto cosa sono io per te.
Anche ora, mentre qui rimango, guarda
che non ti fugga. Né traverserai
a ritroso del fiume la corrente
una seconda volta, né vedrai
un mortale qual era per l’innanzi.
Dapprima ero nel corpo di mio padre,
poi m’accolse mia madre, ad ambedue
comune. Poi di là indistinta carne,
immatura, vergogna informe, né
della ragione né dell’intelletto
partecipe, la madre avendo a tomba.
Due volte seppelliti, siamo vivi
sopra la corruzione. Inver la vita
che percorro, la vedo quial dispendio
degli anni, e rovinosa vecchiaia essa
m’arreca. Se però di là m’accoglie
un evo incorruttibile, com’è
fama, rifletti: vita non ha morte
e nemmeno la fine ti deriva
dalla vita, di contro a come pareti.
Nulla sono. Perché sono dominato
dai mali, come un che di saldo fossero?
Questa inver per gli effimeri è la sola
cosa immodificabile: è innata,
inconcussa, mai vecchia. Fin da quando,
dal grembo della madre scivolando,
emisi il primo pianto, in quante e quali
pene in futur mi sarei imbattuto,
pria di toccare in lacrime la vita!
D’un luogo senza fiere udiam, qual Creta
una volta, e d’un altro anche da gelide
nevi alieno; nessun mortal però
mai si vantò di ciò: d’essere uscito
indomito da qui, dalle molestie
tristi di questa vita. Accidia, povertà,
parto, morte, e odio, scellerati,
fiere di mar, di terra, sofferenze:
tutto ciò è la vita. Pene e molti
dispiaceri conobbi interamente,
ma, tra i beni, nessuno interamente
di cruccio privo, sin da quando pena
fitta m’inflisse il gusto rovinoso
e la gelosia del mio avversario.
Ecco, a te sono tali cose, carne,
che inguaribile sei, benevolente
nemico e guerra mai risolta, fiera
che amaramente blandisce, spirante
fuoco, che meraviglia! Meraviglia
grande, se un giorno alfin mi vorrai bene…

 


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