Temi e protagonisti della filosofia

L’a-teologia di Emil Cioran. Intervista ad Antonio Di Gennaro a cura di Tudor Petcu

L’a-teologia di Emil Cioran. Intervista ad Antonio Di Gennaro a cura di Tudor Petcu

Dic 29

 

 

Nota introduttiva: Oggi pubblichiamo un’intervista ad Antonio Di Gennaro (1975), laureato in Filosofia all’Università di Napoli Federico II. I suoi studi privilegiano lo sviluppo dell’esistenzialismo contemporaneo con particolare riferimento alle problematiche del tempo e del dolore. Ha pubblicato la raccolta di versi Parole scomposte (Alfredo Guida Editore, 2000) e saggi sul pensiero di Emil Cioran, raccolti nel volume Metafisica dell’addio (Aracne, 2011). Nel 2011, ha organizzato il Convegno per il centenario della nascita del filosofo romeno, in collaborazione con l’Accademia di Romania in Roma, curando poi la pubblicazione degli atti nel volume Cioran in Italia (Aracne, 2012). Attualmente sta svolgendo un’attività di ricerca sui testi inediti di Emil Cioran, con particolare attenzione a interviste e carteggi. In tal senso ha recentemente curato i volumi: L’intellettuale senza patria. Intervista con Jason Weiss (Mimesis, 2014), Vivere contro l’evidenza. Intervista con Christian Bussy (La scuola di Pitagora, 2014), Al di là della filosofia. Conversazioni su Benjamin Fondane (Mimesis, 2014), Tradire la propria lingua. Intervista con Philippe D. Dracodaïdis (La scuola di Pitagora, 2015), La speranza è più della vita. Intervista con Paul Assall (Mimesis, 2015), Un’altra verità. Lettere a Linde Birk e Dieter Schlesak (Mimesis, 2016). Il suo sito internet è: http://digilander.libero.it/ant.digennaro/

 

D: Qual è secondo Lei la caratteristica più importante del pensiero di Emil Cioran? Le pongo questa domanda, pensando innanzitutto all’influenza di Friedrich Nietzsche sulla personalità di Cioran, considerato in Romania e in Francia il più grande filosofo nichilista del XX secolo.

R: Esistono, a mio avviso, diversi tratti distintivi del pensiero di Cioran, che ne fanno uno dei maggiori filosofi del Ventesimo secolo. Contrariamente a quanto pensano in molti, Cioran non è un semplice scrittore, ma un autentico, autorevole filosofo, se per filosofia intendiamo non un mero esercizio teorico, accademico, ma originariamente, nella sua essenza, una costante riflessione sulla vita, ricerca di un senso, a partire dall’assurdità e dalla drammaticità della condizione umana. Non parlerei quindi di una caratteristica “unica” o “univoca” del suo cammino di pensiero, ma di molteplici aspetti peculiari e complementari nella sua concezione “sovversiva” della filosofia. Innanzitutto, sin dal primo volume pubblicato in Romania, Pe culmile disperării, del 1934, Cioran, si allontana dalla filosofia “ufficiale”, rivolgendole un duro attacco, una critica radicale e senza appello. Pur essendo laureato in filosofia a Bucarest e pur avendo acquisito un solido bagaglio di conoscenze (anche grazie ai viaggi di studio a Monaco, Dresda e Berlino), Cioran ritiene che la filosofia tradizionale, letteralmente, “non serve a niente”. Lo scrive ad esempio nei Quaderni: «Uno dei rari vantaggi che ho avuto è stato di aver capito a vent’anni che la filosofia non dà nessuna risposta, e che perfino le sue domande sono inessenziali». La filosofia accademica si riduce a un sapere specialistico, erudito, fatto di nozioni e dottrine sofisticate, ma completamente slegato dalla complessità e dalla tragicità della vita reale. Se la filosofia è hegelianamente “pensiero della vita”, nelle università essa non assolve più tale compito, anzi si spegne, si inaridisce, si snatura: diventa sterile, autoreferenziale, nel migliore dei casi “pensiero della vita passata” e dunque “storia della filosofia”, “storiografia”, il che equivale alla morte della filosofia. Una prima caratteristica importante, a mio avviso, che caratterizza il filosofare di Cioran, è il fatto che egli riporta la filosofia al di fuori dalle aule accademiche, libera per così dire la filosofia dai lacci del pensiero astratto-speculativo e la affida alla singola esistenza, che è di per sé “coscienza infelice”. La filosofia, in altre parole, è una ricerca personale, una meditazione del singolo su di sé, un cammino privato che ciascuno compie, a partire dalla propria solitudine e dalla propria intima sofferenza. La filosofia diviene in Cioran atto terapeutico, cura dell’anima, consolazione dal “male di vivere”, non rigorosa (ma improduttiva) ricostruzione ermeneutica circa le filosofie del passato, bensì proficuo “esercizio spirituale”, soggettiva pratica filosofica, pensiero esistenziale. Un secondo aspetto, che mi sembra degno di nota, e che lo differenzia dai “filosofi di professione”, è la passionalità di Cioran, il suo fervore nella scrittura. Cioran non è mai mite, distaccato, spassionato, ma sempre emotivamente coinvolto, appassionato, in preda alla follia, guidato dal proprio demone interiore, o, per dirla con Kay Redfield Jamison, “toccato dal fuoco”. Cioran scrive sempre in uno stato di eccitazione febbrile, di inquietudine, di malessere, di “cafard”, e la scrittura è per lui un “mezzo di liberazione”, è il modo che gli è più congeniale per espellere l’angoscia che lo opprime. Cioran ricorre alla scrittura non come un diversivo di carattere estetico, ma per una necessità impellente di ordine psicoanalitico. Egli non descrive fatti esteriori, non racconta storie, ma “vomita” il proprio mondo interiore: le proprie ossessioni e il proprio stato d’animo costantemente lacerato, dilaniato. Come sappiamo, sin dalla giovane età, Cioran è affetto da stati depressivi, è organicamente malinconico, votato alla nostalgia, condannato alla noia. Pertanto, la prosa filosofica di Cioran si rivela un farmaco, un analgesico, un balsamo, anche per noi lettori. Per quanto riguarda l’influenza di Nietzsche su Cioran, non mi sembra così decisiva. I suoi punti di riferimento sono altri: Pascal, Baudelaire, Shakespeare, Dostoevskij. Sono questi gli autori che hanno plasmato la personalità di Cioran, sono questi i cardini attorno a cui si va costruendo il pensiero tragico di Cioran, il suo nichilismo estremo, che non sfocia come in Nietzsche nel concetto di “superuomo” (Übermensch), ma in quello dell’uomo maledetto, condannato da sempre e per sempre a soccombere ai dardi beffardi del destino. Detto in altre parole, mentre Nietzsche esalta l’ebbrezza della vita, il suo lato “dionisiaco”, Cioran inveisce contro la vita, la maledice, semplicemente perché la vita vuole se stessa, indipendentemente da noi. Essa si disinteressa dei viventi, ossia delle singole esistenze.

 
D: È lecito parlare di una dimensione mistica/spirituale del nichilismo di Emil Cioran? Non bisogna dimenticare infatti che il suo pensiero è stato influenzato anche da alcuni mistici, come ad esempio Meister Eckhart.

R: Questo è un punto decisivo e di grande interesse: il rapporto tra Dio e il Nulla. L’esperienza di pensiero di Cioran, sin dagli anni giovanili, oscilla tra la costante ricerca di un Dio e il suo categorico rifiuto, tra l’esperienza mistica e il nichilismo assoluto. Teologia e ateismo si fondono e si confondono, dando vita ad una forma di fede laica, che vede nella solitudine dell’anima, e nelle sue più intime espressioni (preghiera, musica, scrittura), il luogo privilegiato dove “incontrare” Dio – o la sua idea. Influenzato dal pensiero pagano (Marco Aurelio, Giuliano l’Apostata) e affascinato dalle eresie cristiane (Bogomili e Catari), dallo gnosticismo (Basilide), dalla tradizione greco-ortodossa (Giovanni Climaco, Gregorio Palamàs), dai mistici (Meister Eckhart, Angelus Silesius, Jacob Böhme, Juan de la Cruz) e dalle sante (Teresa d’Àvila, Angela da Foligno), ma anche dalle religioni orientali (Buddhismo, Taoismo, Induismo), Cioran giunge ad una visione di Dio come “funesto demiurgo”, senza tuttavia rinnegare la dimensione del “sacro” come elemento imprescindibile della sua tragica Weltanschauung. A tale riguardo, Cioran amava definirsi: “un nichilista di tendenze religiose”. Anche il teologo e musicologo rumeno George Bălan, corrispondente epistolare di Cioran e autore di una monografia sul suo pensiero, riconosce in una lettera del 18 ottobre 1968 che Cioran è «uno degli spiriti più religiosi del secolo». Condivido quindi in pieno la sua affermazione e concordo sul fatto che “è lecito parlare di una dimensione mistica/spirituale del nichilismo di Cioran”. Attenzione però: Cioran non crede in Dio, bensì nel nulla, nel “solido nulla” per dirla con Leopardi, nella nullità di tutte le cose, nella vacuità universale, nell’inanità dell’essere. I mistici medievali, come Meister Eckhart, sono uomini di fede, teologi, credono nel Dio rivelato, nella manifestazione di Dio nella storia e, al tempo stesso, nella ineffabilità e inconoscibilità di Dio. In tal senso, il Nulla è l’altra faccia del Dio ignoto, del Deus absconditus, e funzionale ad una teologia negativa che preferisce astenersi dal nominare l’innominabile. Cioran è lontano da una visione di tale fattura. Il nulla di cui parla Cioran non è il Nulla-Dio, ma il principio reale che attanaglia e sottende la vita. Il nulla di Cioran non ha niente a che fare con Dio, ma con l’assenza di Dio. Il concetto di Dio sorge successivamente, quando l’uomo sperimenta la tragicità della propria condizione, ma soltanto come palliativo della mente sofferente. In realtà, come ogni uomo, Cioran avverte il “sospiro religioso”, la tendenza o l’impulso ad oltrepassare sé, a trascendersi in vista di un Assoluto che non esiste, se non come frutto della nostra fervente immaginazione. Qui Cioran è senza dubbio in linea con il pensiero ateo di d’Holbach, Feuerbach, Schopenhauer o Freud. Secondo tale tradizione di pensiero, Dio non è altro che l’Essere supremo (immaginario), che l’uomo in quanto “coscienza infelice” si inventa come ultimo appiglio di salvezza nel fondo della propria solitudine. Quindi, quella di Cioran, per riprendere Sylvie Jaudeau, è una “mistica profana”, una “mistica senza Dio”, una mistica impregnata di nichilismo, dove il nulla è tutto e Dio una semplice invenzione, un’allucinazione, un “nonsenso consolatore”.

 
D: La disperazione costituisce forse il concetto più importante della filosofia di Cioran. È possibile parlare di una dimensione “metafisica” della disperazione nel suo pensiero?

R: La disperazione è l’assenza di speranza, il sentimento della morte. Nei Quaderni Cioran scrive: «Ho la disperazione nel sangue; in me non è un sentimento o un atteggiamento, ma una realtà fisiologica, per non dire fisica. La disperazione è la mia fede, la mia fede innata». La disperazione non è un concetto astratto su cui è possibile disquisire o argomentare logicamente, con freddezza e distacco. La disperazione è un’esperienza vissuta, patita “in prima persona”, e, nel momento in cui la si vive, il soggetto è coinvolto in un turbine, in una corrente, in un vortice, dove non vede il fondo, dove non c’è un domani o una prospettiva. Di fronte a tale esperienza vissuta, per resistere ai duri colpi della vita e non soccombere, Cioran decide di scrivere la propria disperazione, di estrinsecare la propria depressione in un atto creativo. La sua prima opera si intitola appunto “Al culmine della disperazione”, ma tale criterio può essere esteso a tutti gli altri testi. Al centro della sua visione del mondo vi è un disagio, un dolore, un’angoscia. Cioran avverte il distacco dalla vita, la repulsione, la non-integrazione e in tutte le sue opere egli racconta di questa esperienza, di questo sentimento di scissione e di lacerazione, di questa inquietudine esistenziale, di questo “esilio metafisico”. Per di più, la disperazione secondo Cioran conduce alla preghiera e al dialogo con Dio. Sempre nei Quaderni afferma: «La disperazione che non approda a Dio, che non vi cozza contro, non è vera disperazione. La disperazione è quasi indistinta dalla preghiera, e in ogni caso è la matrice di tutte le preghiere». Ovviamente, Dio è solo un concetto-limite e mai l’Essere trascendente delle religioni positive.

 
D: Qual è la sua opinione per quanto riguarda il rapporto tra “sacro” e “profano” nella filosofia di Emil Cioran?

R: Direi che, paradossalmente, il sacro, in Cioran, risiede nel profano. L’essenza del sacro è nel profano, il senso del divino è nell’umano: soprattutto negli ultimi, negli estromessi, nei disadattati, nei diseredati, nei perdenti, nei falliti, negli squilibrati, nei suicidi. Dimentichiamo l’ortodossia cristiana fatta di funzioni religiose, di liturgie e preghiere, dimentichiamo la fede e il credo in un “Dio onnipotente, creatore del cielo e della terra”. Qui siamo di fronte a un pensatore insolente, irriverente, provocatorio e blasfemo che accusa Dio (qualora un Dio esistesse, qualora vi fosse un Dio) del male del mondo. Ricordiamo ancora una volta che uno dei testi più importanti del pensatore rumeno-parigino reca come titolo “Il funesto demiurgo”. Cioran su questo versante segue la setta eretica dei Bogomili, anzi si considera un “bogomilo del XX secolo”. Il Dio di Cioran è un Dio maledetto, infimo, insulso. È un Dio macchiato dall’infamia e dall’ignominia di aver generato e originato l’essere e di non essersi accontentato del vuoto-nulla. Secondo Cioran, sarebbe stato meglio non essere mai stati, non essere mai nati e quindi non aver mai conosciuto la disavventura di essere stati gettati nel mondo, nella vita e nella storia. Quindi il divino è propriamente nell’uomo, nell’umanità dell’uomo: questa è, parafrasando Fabrizio De André, la “buona novella” dell’eretico Cioran, apostata-neopagano. Ai dotti e ai sapienti, egli preferisce i mendicanti e le prostitute. Qui dimora l’autentico volto di Dio, qui si manifesta il divino: nella condizione dell’estremo abbandono. È nell’esperienza del dolore, quando si è “al culmine della disperazione”, “ai piedi della croce”, che il divino appare. Ma è solo un’idea della ragione, perché in fondo, nel fondo del nostro essere e della nostra solitudine, nessun Dio potrà salvarci e redimerci dal dolore. Per concludere questa mia risposta, farò riferimento a un episodio citato da Cioran in un’intervista concessa al filosofo spagnolo Fernando Savater nel 1990. Parlando delle prostitute, afferma: «Una notte una di loro mi disse che suo marito era appena morto. Era giovane, bella. Mi disse che quando faceva l’amore con qualcuno vedeva il suo cadavere sul letto, vicino a lei. Bisogna andare nei bordelli per sentire cose così profonde!». Ecco, è questa la dimensione del “sacro” come mysterium tremendum et fascinans: nel sacrilegio, nella profanazione, nella “trasvalutazione di tutti i valori”, nella trasfigurazione del dolore (la morte nel cuore) in delirio e follia.

 
D: Anche se la filosofia di Cioran ha optato per una visione nichilista, lontana dai valori presenti nel cuore del cristianesimo, credo tuttavia che la sua ermeneutica abbia una qualche eredità cristiana e a tale riguardo le chiedo di spiegarmi/dirmi se una tale eredità esiste nell’opera del filosofo rumeno. È possibile discutere sui valori cristiani della filosofia di Cioran?

R: Cioran proviene dal mondo ortodosso. Suo padre, Emilian Cioran, era un pope e sua mamma, Elvira Comaniciu, presidentessa dell’associazione delle donne di religione ortodossa. Il giovane Cioran frequenta assiduamente la biblioteca paterna a Răşinari, ma anche quella dell’arcivescovo di Sibiu, di cui il padre era consigliere. Quindi, nella formazione e nella crescita spirituale di Cioran, non mancano certo le letture di teologia (comprese le vite dei santi, l’approfondimento della mistica, ecc.). Questi però matura, ben presto, una forte ostilità verso tutto ciò che è dogmatico e religioso. Pur riconoscendo la profondità della teologia ortodossa, Cioran si mostra insofferente verso la dottrina cristiana che presuppone l’idea di un Dio buono, Padre creatore, Essere supremo. Come già detto, Cioran opta per un Dio demoniaco, un Dio che non ha a cuore il destino dell’uomo, ma che oscilla tra indifferenza e compiacimento dell’umana sofferenza. È un Dio scellerato, dispotico, malvagio, così come è stato recentemente rappresentato, in maniera esemplare, dal regista belga Jaco Van Dormael nel film “Le tout nouveau testament” (2015), che si prende gioco delle sue creature, e che anzi prova un piacere sadico nel tormentarle e torturarle. Nelle sue opere Cioran si scaglia contro Dio, la sua “invocazione” diviene spesso “bestemmia”, “preghiera arrogante”. Cioran inveisce contro Dio perché sa che l’uomo è condannato ab aeterno e che esiste un destino tragico ad accomunare i mortali. Non si tratta della morte. La morte è solo l’episodio ultimo e risolutivo di un dramma più grande: la vita. Questa è la croce che ognuno porta sulle spalle, con ineffabile sofferenza. Nonostante la sua avversione verso l’impianto dottrinario cristiano, pur non credendo in Dio, e pur essendo lontano da ogni fede ecclesiale, è possibile riscontrare in Cioran (nella quotidianità dell’uomo) una particolare sensibilità verso il prossimo, che si manifesta nel sentimento della pietà, della solidarietà, della fraternità umana. È quella che il filosofo italiano Salvatore Natoli definisce un’“etica del finito”. In ogni caso, non intravedo alcuna “eredità cristiana” nella filosofia di Cioran. Nella sua visione del mondo, marcatamente atea, i concetti di redenzione e salvezza sono del tutto esclusi, categoricamente respinti. L’unico concetto che Cioran riprende dall’Antico Testamento è quello della Caduta e del Peccato originale. Questa è la stimmate nefasta che chiunque venga al mondo si porta addosso. Per concludere, vorrei utilizzare ancora una volta le parole dello stesso Cioran, che certamente chiariscono in pieno il suo punto di vista in merito alla religione cristiana. Ne La tentazione di esistere (1956) leggiamo: «Consumato fino all’osso, il cristianesimo ha smesso di essere una fonte di stupore e di scandalo, di scatenare crisi o di fecondare intelligenze. Non mette più a disagio lo spirito né lo costringe al minimo interrogativo; le inquietudini che suscita, come le sue risposte e le sue soluzioni, sono fiacche, soporifere: nessuna lacerazione promettente, nessun dramma può più aver origine dal cristianesimo. Ha fatto il suo tempo: ormai la Croce ci fa sbadigliare…».

 

 


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