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La filosofia politica di Gilles Deleuze (24)

La filosofia politica di Gilles Deleuze (24)

Nov 08

 

 

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24. Sui limiti del capitalismo

Ci sono due limiti reali per il capitalismo: i limiti interni ed i limiti esterni. Le crisi del capitalismo rappresentano i suoi limiti interni. Pensare che sia il capitalismo stesso a porre i suoi limiti significa pensare che questi limiti siano interni ed intrinseci al capitalismo. L’idea di Marx per cui il capitalismo nel suo sviluppo sarebbe giunto alla sua auto-distruzione, perché in esso sono presenti una serie di meccanismi che potremmo definire come “autolesionisti”, corrisponde a una concezione dei limiti del capitalismo come limiti interni. Il caso più evidente sono le crisi economiche. Secondo Marx il capitalismo è veramente un sistema economico folle, dove l’equilibrio rappresenta lo stato di eccezione: infatti di norma in esso si presentano continuamente crisi periodiche. Si può leggere la crisi economica in vari modi; quello che è certo è che Marx non è un sottoconsumista, cioè non crede che la crisi economica, come prevede invece la teoria keynesiana, dipenda da una scarsa domanda e da un calo dei consumi. Ci si dovrebbe piuttosto chiedere, da questo punto di vista, perché i consumi sono calati. Se lo si facesse si scoprirebbe che, banalmente, o la gente non ha soldi per comprare, essendovi in particolare molta disoccupazione, o comunque non spende, tenendo i soldi da parte in quanto ha paura del futuro prossimo e delle spese a venire. Quindi il calo di consumo è solo un effetto della crisi, ma non la sua causa vera e propria. Marx nota delle contraddizioni nel capitalismo, una di queste si dà nell’opposizione tra il valore e la ricchezza. Per valore si intende la quantità di lavoro contenuta in una merce, mentre per ricchezza si intende la quantità di merci prodotte, cioè i beni utili. Produrre più merci nello stesso tempo di lavoro non aumenta il valore delle singole merci: due merci prodotte in un’ora avranno insieme lo stesso valore di una merce prodotta nella stessa ora, ma prese singolarmente le due merci avranno la metà di quel valore. Il capitalista ha la tendenza a spendere il meno possibile per ridurre i costi e a produrre il più possibile. Per fare questo il capitalista, un po’ alla volta, sostituisce i lavoratori con delle macchine, e in questo modo ottiene più merci a costi più bassi. Mezzi di produzione, macchinari e materie prime sono per Marx il capitale costante, mentre il lavoro vivo è il capitale variabile. Essendo per Marx solo il lavoro vivo la vera fonte del valore, anche il profitto, cioè il plusvalore, dipende dal lavoro vivo. Se si sostituisce il capitale variabile (lavoro vivo) con il capitale costante (lavoro morto), essendo che il profitto dipende solo dal capitale variabile, si deduce che questa sostituzione farà scendere il saggio generale di profitto. Inoltre l’introduzione di macchinari crea disoccupazione, la concorrenza mette in competizione le aziende, un po’ alla volta alcune aziende falliscono perché non hanno sufficienti capitali e non riescono a produrre di più a minori costi. Qui si genera il paradosso della crisi di sovrapproduzione: la produzione aumenta, ci sono tantissime merci sul mercato, ma, dato che aumenta anche la disoccupazione, la gente non ha più soldi e non compra più merci. Marx quindi vedeva nel capitalismo un sistema contraddittorio. Infatti nel terzo libro del Capitale Marx fa dipendere la fine del capitalismo da queste contraddizioni, sicché la fine del capitalismo sembra necessaria [108]. Deleuze e Guattari non sono d’accordo con questa posizione; infatti si chiedono: chi è mai morto per le proprie contraddizioni? Deleuze e Guattari piuttosto appoggiano l’idea di un certo marxismo francese, quello di Althusser e di Balibar, i quali intendono la caduta tendenziale del saggio di profitto, che è l’elemento essenziale della lettura della crisi in Marx, come qualcosa che non ha mai fine:

Il celebre problema della caduta tendenziale del saggio di profitto, cioè del plusvalore rispetto al capitale totale, non può essere compreso se non nell’insieme del campo d’immanenza del capitalismo, e nelle condizioni in cui un plusvalore di codice viene trasformato in un plusvalore di flusso. Appare innanzitutto (conformemente alle osservazioni di Balibar) che questa tendenza alla caduta del saggio del profitto non ha fine, ma si riproduce da sé riproducendo i fattori che la contrastano. Ma perché non ha fine? Probabilmente per le stesse ragioni che fanno ridere i capitalisti e i loro economisti, quando constatano che il plusvalore non è matematicamente determinabile. [109]

Quindi Deleuze e Guattari stanno dicendo che il capitalismo non finirà mai per i suoi limiti interni o per le sue contraddizioni. A questo punto non resta che vedere i limiti esterni. Il capitalismo ha oramai conquistato l’intero globo, non sembra che ci sia una forza esterna che riesca a resistergli. Il capitalismo si impone anche nei paesi del terzo mondo come l’unico modello. Tuttavia almeno si dovrebbe considerare il fatto che il capitalismo dovrebbe avere un qualche limite ecologico, cioè, anche se il finanzcapitalismo riesce a moltiplicare il denaro all’infinito, le risorse naturali su questa terra non sono altrettanto infinite. Ma si legge in Mille piani:

Il capitalismo è proprio un’assiomatica perché ha solo leggi immanenti. Vorrebbe far credere che si scontra con i confini dell’Universo, all’estremo limite delle risorse e delle energie. In realtà si scontra solo con i suoi stessi limiti (deprezzamento periodico del capitale esistente) e respinge o sposta solo i propri confini (formazione di un capitale nuovo, in nuove industrie a forte tasso di profitto). [110]

Il capitalismo si scontra contro i suoi limiti esterni, ma finisce sempre per spostarli continuamente. Certo il mondo nostro e le sue risorse sono ancora un limite per il capitalismo, da quello che a noi sembra, ma se si dovessero produrre i mezzi per poter fuggire alla nostra condizione terreste e trovare altri pianeti da sfruttare, allora nemmeno quel limite esisterebbe per il capitalismo. Se poi ci fossero infiniti mondi, come dice Giordano Bruno, allora neanche l’Universo sarebbe un limite, perché non è limitato. Oltretutto lo spirito del capitalismo consiste nel trarre profitto da ogni cosa, anche da un disastro ambientale come potrebbe essere quello dello scioglimento dei ghiacciai ai poli; comunque Deleuze e Guattari in questo ambito fanno riferimento esplicitamente al petrolio e al nucleare.

L’ultimo dei limiti esterni da prendere in considerazione è la schizofrenia. Il capitalismo con la sua decodificazione e confusione dei codici, spingendo sempre più verso una deterritorializzazione assoluta, si avvicina al suo limite esterno, si scontra contro esso e lo sposta. I movimenti del denaro diventeranno sempre più incontrollabili come quelli del capitale, la moneta arriverà a moltiplicarsi sempre di più, fino a trasformare sempre di più ogni cosa in puro flusso. La schizofrenia o la deterritorializzazione assoluta del denaro è il punto di rottura del capitalismo, il suo punto di morte. Non è chiaro se qui debba finire il capitalismo una volta per tutte; forse Deleuze e Guattari si immaginano questo limite sempre più spostato e un capitalismo che si scontra sempre più contro quel limite, diventando sempre più schizofrenico.

 

Note

[108] È davvero così? Bisognerebbe studiare i manoscritti originali per la scrittura del terzo volume del Capitale: è molto probabile che, dato l’importante contributo di Engels alla pubblicazione di questo testo, una lettura di questo tipo possa dipendere più dall’idea di una storia meccanica di quest’ultimo, che da Marx stesso.

[109] Gilles Deleuze, Félix Guattari, L’anti-Edipo, Einaudi, Torino 2010, p. 258.

[110] Gilles Deleuze, Félix Guattari, Mille piani, Castelvecchi, Roma 2010, p. 545.

 

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